Paolo Soro

Pianificazione fiscale etica

E’ possibile sviluppare un’attività di pianificazione fiscale internazionale etica (che sia cioè improntata su condivisibili precetti morali)? A modesto parere di chi scrive, assolutamente sì! E, in questo contributo, si cercherà di fornirne adeguata dimostrazione logica.

Per l’immaginario collettivo, parlare di “pianificazione fiscale etica”, nella migliore delle ipotesi, potrebbe sembrare una contraddizione in termini; nella peggiore, finanche un nonsenso, una proposizione antinomica in cui il qualia “etica” contraddice il soggetto a cui risulta abbinato, espresso dalla locuzione “pianificazione fiscale”. Ebbene, a nostro avviso, ciò non è affatto vero.

Etica e morale

Il dizionario attribuisce al termine “etica” un significato non dissimile da quanto indicato per “morale”: la morale concerne le forme e i modi della vita pubblica e privata che si reputano buoni e giusti; l’etica è lo studio della determinazione della condotta umana e della ricerca dei mezzi atti a concretizzarla (ossia, le norme di vita pubblica e privata che devono essere fatte proprie, in quanto moralmente corrette).

I due termini hanno, dunque, un significato quasi identico, uno ha origine latina (morale) e l’altro greca (etica). Il termine morale deriva, infatti, dalla parola latina moràlia che ha un significato pressoché identico al termine greco èthos, da cui deriva la parola etica. Ma è guardando le sfumature interpretative che si comprende che l’èthos è piuttosto il comportamento, il carattere, il modo di pensare adottato e di porsi nei confronti della vita; mentre moralia indica di regola il corretto rapporto tra il comportamento e i valori generali (moralis) da cui è originato. Ethos è, infatti, una parola che non a caso i romani traducevano come habitus, da cui derivano l'abito, il modo di apparire, l'abitudine, la consuetudine, il costume, la costante maniera di comportarsi.

Pur avendo, insomma, significati che da un certo punto di vista si possono sovrapporre, potremmo dire che l’etica definisce la morale comune; e la morale diventa, di fatto, l’oggetto dello studio dell’etica.

Seppure, quindi, etica e morale vengano spesso confuse o scambiate come fossero esatti sinonimi nella pratica (tutti noi usiamo indistintamente espressioni come “non rubare è eticamente corretto”, oppure “non rubare è moralmente corretto”), se vogliamo pignoleggiare e riferirci al significato effettivo dei due termini, dovremo più precisamente concludere che: l'etica cerca di studiare delle regole oggettive in base alle quali poter definire i comportamenti corretti e buoni; la morale è la percezione che gli individui hanno sul fatto che determinati comportamenti siano corretti e buoni. Ecco che possiamo, allora, affermare come lo studio della legge morale universale diventi l'oggetto principe dell'analisi dell'etica.

Fatto sta che etica e morale indicano l'insieme di principi guida del comportamento umano nella società civile; basti pensare all'etica professionale – per esempio, il giusto modo di comportarsi svolgendo una professione lavorativa a contatto con altre persone – o alla famosa morale contenuta nei finali di molte favole, ossia un insegnamento da trasmettere al Lettore.

Anche nell’antichità, I due termini indicavano sostanzialmente la stessa cosa. Nello specifico, in epoca arcaica, indicavano – a esempio – il comportamento del guerriero, le linee guida che egli seguiva andando incontro al plauso o al biasimo della gente. L’etica era insomma l'insieme dei valori ispirati in quei tempi alla gloria personale, all'onore e all'eroismo.

Hegel opera una netta distinzione tra etica e morale. Il filosofo tedesco riconosce alla morale un campo strettamente individuale, collegato quindi alla condotta del singolo, mentre assegna all'etica un compito "filosofico-sociale"; l'etica diventa una branca della filosofia che studia e analizza i comportamenti e i valori morali dell'uomo. Sembrerebbe, dunque, con Hegel, che la morale divenga ufficialmente in un certo senso l'oggetto dell'analisi dell'etica; di fatto, però, era già così per moltissimi illustri filosofi che lo avevano preceduto. In questo senso, Hegel non è certo un innovatore; egli si limita a riteorizzare teorie altrui, pur aggiungendo – per carità – alcune personalissime e importanti varianti tutte sue.

Andando, allora, ad alcuni emblematici pensatori che lo hanno preceduto, occorre subito evidenziare le due opposte concezioni espresse dall’empirico David Hume, e dal maestro dell’illuminismo nonché maggiore studioso teorico della “Ragione”, Immanuel Kant.

Secondo Hume, come noto, alla base di tutto c'è l'esperienza. Quindi, ogni uomo forma il suo carattere, la sua scala di valori e i suoi comportamenti in base all'esperienza e, conseguentemente, a seconda del contesto in cui nasce e vive. Seguendo questa impostazione sarebbe, quindi, legittimo pensare che esista una morale araba, una morale occidentale, una morale orientale e così via. E dobbiamo riconoscere che, anche oggi, si tende a pensare alla morale in questo modo (quello che è morale per un italiano, non lo è necessariamente per un cinese; come quello che è morale per un cattolico, non lo è per un musulmano; etc.). Per Hume, in sostanza, la morale è propria della collettività da cui promana; ossia, è relativa, varia da comunità a comunità; in una sola parola: la morale è soggettiva.

Orbene, a modestissimo parere di chi scrive (e, fortunatamente, a parere pure di ben altri Autorevoli pensatori), non significa che detto modo di intendere la morale sia corretto; tutt’altro: una morale soggettiva sarebbe insostenibile e atroce. Semplicemente, ciò è dovuto al fatto che vige all’interno di ogni comunità l’interesse della classe dominante (la sovrastruttura di matrice marxiana) che impone la sua morale (per meglio dire, la sua soggettiva visione della morale; spesso una non-morale) a tutti gli appartenenti alla collettività.

Kant, per esempio, pur condividendo la grande importanza dell'esperienza, sostiene viceversa l'esistenza di concetti "a priori", cioè concetti che l'uomo ha indipendentemente dall'esperienza, dal contesto storico, geografico e culturale in cui vive. Seguendo questa impostazione, esistono dei principi etici universali, validi per ogni uomo di qualsiasi luogo ed epoca. Tale è la morale assoluta che, come dice pure Russell, seppure ardua e spesso quasi impossibile da raggiungere, occorre sforzarsi sempre di cercare di acquisire.

Non è pensabile che sia il dato empirico a suggerirci che “non ammazzare” sia un precetto morale valido. Tale precetto, infatti, appare indiscutibilmente già insito dentro ciascun essere dotato di ragione. Ergo, non possiamo più pensare – sotto quest’ottica – a una morale di tipo soggettivo, ma assolutamente universale e oggettiva.

Anche i continui sviluppi internazionalistici dei Paesi di tutto il mondo andrebbero, d’altronde, in questa direzione. Emblematica è La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo che suggella appunto la portata universale di questa Carta ispirata a valori riconosciuti da tutti. La sfida sta nel comprendere fin dove può arrivare una condivisione universale dei valori etici e fin dove l'uomo può spingersi per "creare" artigianalmente questa condivisione.

Giustizia morale ed etica universale

A questo punto, la domanda da porsi è:

-          Esistono dei valori intrinseci presenti in ogni uomo che siano universalmente validi?

La risposta, ad avviso di chi scrive, è senza dubbio positiva, in quanto l’assioma di fondo da cui non si può prescindere resta sempre il seguente:

-          Il mio comportamento è davvero etico soltanto nella misura in cui lo stesso sia dettato da universali principi morali.

Per Kant, in effetti, giova rammentarlo, non si deve guardare al singolo comportamento (ossia, all’azione che gli uomini compiono), quanto piuttosto alla motivazione in funzione della quale quel comportamento viene adottato: solo se detta motivazione è morale, possiamo correttamente giudicare etico il comportamento che ne consegue. Il famoso esempio che prospetta il filosofo tedesco, in proposito, è quello di chi trova il portafogli perso da qualcun altro e lo restituisce; non perché teme di essere stato visto mentre lo raccoglieva (e, dunque, punito), ma solo giacché reputa sia suo dovere restituirlo al legittimo proprietario che lo ha perduto (“Il dovere per il dovere”; “La legge morale dentro di me” – Kant). Appare evidente a ciascuno di noi che l’atto di rendere il portafoglio rappresenta un comportamento etico solo se è la conseguenza della motivazione morale (universale) che ci impone di restituire ciò che non ci appartiene.

Riportando il tutto all’odierno argomento, occorre innanzitutto premettere come nell’immaginario collettivo appaia indiscutibile la seguente affermazione:

-          Pagare le tasse è un dovere etico.

In linea di massima, non vi è chi non concordi con tale principio. Prima, però, di comprendere perché, in realtà, questa affermazione non sia, alla resa dei conti, affatto così scontata, ci permettiamo di aprire un’altra doverosa parentesi che affronta il problema sotto un’ottica di carattere normativo.

Quella dose di pragmatismo che (chi più, chi meno) un po’ tutti abbiamo, ci porta a voler quasi troncare ogni discorso in ragione del fatto che, morale o non morale, esistono delle regole/leggi che è necessario rispettare.

L’obiezione è fondata e merita un più che legittimo approfondimento.

La prima considerazione trae origine dal fatto che: “Le cose devono essere regolamentate affinché io possa godere della mia libertà non regolamentata” (Slavoj Zizek – Problemi in paradiso). Per meglio dire, sono proprio le regole a garantire il rispetto della libertà universale; così come sono le leggi ad assicurare l’applicazione di una giustizia equa.

Il problema, però, è: che succede se le regole/leggi sono ingiuste?

È un fine condiviso dall'umanità intera fin dai suoi albori, quello che nel mondo debba regnare la giustizia. Ma nel momento in cui si tenta di definire in che cosa essa consista – e, quindi, in base a quale criterio si debba giudicare qualcosa come giusto o ingiusto – emerge un profondo disaccordo.

Il più antico trattato dell'Occidente sulla giustizia, il dialogo di Platone: “La Repubblica”, dedica l'ampio primo libro a una discussione che vede contrapporsi le differenti opinioni circolanti a quel tempo tra i comuni cittadini e gli “intellettuali” sofisti. Secondo Platone: “Ogni costituzione si altera quando si insinua la discordia fra coloro che sono al potere”. Nello stato timocratico comandano i guerrieri; con l’aumento delle ricchezze, si passa dalla timocrazia all’oligarchia; una volta spinto all’eccesso, l’amore per la ricchezza causa la degenerazione dell’oligarchia in democrazia, in cui si afferma la libertà; quando, però, anche questa diviene eccessiva (non più libertà, ma pura anarchia) la democrazia crolla e subentra la tirannide, dove l’uomo giusto (il filosofo) è infelice e quello ingiusto (il tiranno) è felice.

Oggigiorno, dopo un dibattito durato secoli, non si è ancora arrivati a definire in modo univoco i principi della giustizia. Sembrerebbe imporsi quel relativismo che rinuncia al concetto di giustizia, il quale dovrebbe piuttosto fondarsi su principi di carattere universale, propri dentro ciascun uomo; non certo imposti dall’esterno, ovverosia: eteronomi. Così, di fatto, il concetto di giustizia stesso appare tramontato.

In questo scenario, irrompe John Rawls, l’unico filosofo contemporaneo che abbia seriamente affrontato il problema della giustizia morale e che abbia sviluppato una teoria di enorme grandezza etica. In netto contrasto con l’utilitarismo dominante, egli afferma che a ogni uomo viene conferita dalla giustizia un’inviolabilità tale che non può essere messa in discussione neanche in nome del bene dell'intera società. Nella giustizia perfetta esiste un criterio indipendente per definire un risultato giusto e vi è una procedura che conduce con certezza a tale risultato.

La giustizia è per Rawls "Il primo requisito delle istituzioni sociali", così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Come una teoria, egli argomenta, deve essere abbandonata o modificata se non risulta vera, così le leggi e le istituzioni devono essere abolite o riformate se sono ingiuste, anche se fornissero un certo grado di benessere alla società nel suo complesso, in quanto: "Ogni persona possiede un'inviolabilità fondata sulla giustizia su cui neppure il benessere della società nel suo complesso può prevalere. Per questa ragione, la giustizia nega che la perdita della libertà per qualcuno possa essere giustificata da maggiori benefici goduti da altri.”

Il ruolo della giustizia così configurato non consente, secondo Rawls, che possa definirsi giusta una società che pensi di poter controbilanciare i sacrifici imposti a pochi, con una maggiore quantità di vantaggi goduti da molti. In una società giusta si devono dare per scontate "eguali libertà di cittadinanza".

Ad avviso di Rawls, l'uguaglianza nel godimento delle libertà fondamentali è un diritto assoluto, che non ammette eccezioni, né compromessi. L'unico caso in cui sia tollerabile un'ingiustizia perpetuata ai danni della libertà è quello in cui si è costretti a evitare un'ingiustizia ancora maggiore come, a esempio, nel caso desunto dalla storia antica in cui rendere schiavo il prigioniero di guerra (privandolo della libertà personale) rappresentava già un notevole passo avanti rispetto all'usanza di ucciderlo.

Dopo aver chiarito queste posizioni di fondo sulla giustizia (e sul primato della libertà individuale), si pone, tuttavia, il problema di fondare su basi razionali alcuni essenziali criteri di giustizia che possano valere per tutti gli uomini, intesi kantianamente come esseri razionali interessati a cooperare tra loro. Si tratta di arrivare a delineare alcuni principi di giustizia, razionalmente condivisi da tutti i membri della società, sulla cui base, poi, decidere circa le pretese di accesso ai beni primari da parte dei singoli. Rawls si rende conto che gli individui di una società hanno obiettivi e fini diversi; ma proprio per questo ritiene necessario che gli uomini raggiungano un comune accordo sui criteri dell’equa distribuzione dei beni essenziali. In altre parole, è necessario stabilire in via preliminare una "pubblica concezione di giustizia", che formi "lo statuto fondamentale di un'associazione umana bene-ordinata". Da questo punto di vista, si capisce perché Rawls insista tanto nel ritenere che l'idea più importante della società non sia quella di "bene", ma quella di "giusto". Anzi, egli sostiene che una società si dirà "bene-ordinata", non solo se tende a promuovere il benessere dei suoi membri, ma se è anche regolata da una concezione pubblica della giustizia che richiede due condizioni:

a)      che ogni individuo accetti e sappia che gli altri accettano i medesimi principi di giustizia;

b)      che le istituzioni fondamentali soddisfino in modo riconosciuto tali principi.

In mancanza di un accordo tra i membri di una società su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, osserva Rawls, risulta più difficile stabilire legami vantaggiosi di convivenza civile, in quanto diventano dominanti il sospetto e l'ostilità. II problema che ora si pone è quello di giustificare razionalmente le regole di giustizia da far valere all'interno delle moderne democrazie o, come preferisce l'autore, delle società bene-ordinate.

Rawls immagina una situazione iniziale (original position) in cui i singoli individui scelgono i principi di giustizia in condizione di assoluta eguaglianza, in quanto sono privi di un certo numero di informazioni relative alla propria condizione futura nella società. La scelta viene, cioè, effettuata sotto quello che il filosofo chiama "Velo di ignoranza". Infatti, nota Rawls, coloro che fossero a conoscenza di essere ricchi potrebbero considerare ingiuste eventuali imposte a scopo assistenziale; mentre, coloro che fossero a conoscenza del loro stato di povertà sarebbero molto probabilmente a favore di quelle stesse imposte. Il "Velo di ignoranza" ha il compito di escludere la conoscenza di quei fattori contingenti che porrebbero gli uomini in conflitto tra loro, rendendo impossibile qualsiasi accordo sui principi di giustizia. Il "Velo di ignoranza", in pratica, rende eguali le parti nella posizione originaria: infatti, tutti hanno gli stessi diritti nella procedura di scelta dei principi e ognuno può avanzare proposte razionali da sottoporre al giudizio e all'accordo altrui. Le parti vengono, dunque, presentate come razionali e reciprocamente disinteressate, in quanto nessuno può pensare di avvantaggiarsi dalla scelta di taluni criteri.

I principi di giustizia che ne scaturiscono sono il risultato di un accordo equo, proprio perché conseguito in una condizione iniziale equa. In questo senso la teoria rawlsiana può legittimamente definirsi una teoria della giustizia come equità. Giustizia come equità significa che i principi di giustizia sono appunto quelli che le persone razionali, preoccupate della propria sorte, sceglierebbero in condizione di eguaglianza iniziale, qualora cioè nessuno fosse manifestamente avvantaggiato o svantaggiato da contingenze sociali o naturali.

Rawls attribuisce a Kant l'ispirazione della sua teoria. Come l'etica kantiana è sostanzialmente incentrata sulla scelta autonoma di persone razionali, libere ed eguali, così quella di Rawls, grazie al “Velo di Ignoranza”, fa discendere la giustizia dall'accordo di persone libere e indipendenti, in quanto non determinate da motivi egoistici e contingenti. Si tratta di un'etica dell'autonomia, che esclude ogni eteronomia morale.

Possiamo, sostanzialmente, affermare quindi che, più le regole/leggi risultano correttamente applicabili a un maggior numero di individui (ossia, in quanto formate autonomamente e non imposte in modo eteronomo, risultano confacenti al sentimento degli uomini), più la giustizia che si dispensa applicando tali regole/leggi risulterà essere realmente equa.

La seconda considerazione rispetto alla pragmatica obiezione riportata in principio, è poi quella afferente ordinarie motivazioni connesse alla gerarchia delle fonti.

La prima indiscutibile normativa che deve essere universalmente rispettata, in quanto costituisce la base di qualunque altro complesso di regole scritte dagli uomini, resta sempre la legge di natura: da questa fonte originaria, discendono tutte le altre leggi. Dopo di che, così come parlare di morale soggettiva, relativa, propria di ogni collettività, appare errato (atteso che la morale dovrebbe essere di tipo oggettivo, universale e applicabile equamente al maggior numero di esseri umani), allo stesso modo, le leggi della singola nazione sono gerarchicamente sotto-ordinate rispetto a quelle di carattere internazionale, comunitario, o dei trattati multilaterali, proprio perché ogni giurisdizione (rimettendosi a un’Autorità superiore) riconosce che la normativa internazionale abbia una portata generale, pluri-collettiva, e per ciò stesso maggiormente equa.

Alcuni esempi pratici serviranno a meglio comprendere la questione. L’Italia ha una sua normativa IVA; ma, in quanto appartenente all’UE, detta imposta fa parte dei tributi c. d. armonizzati e soggiace alla potestà decisionale della Corte di Giustizia, la quale applica le regole comunitarie. Non solo: è allo studio della Commissione UE un’IVA europea unica e, per altri versi, una nuova Common Consolidated Corporate Tax Base (come già meglio esplicitato nel presente saggio). Trattasi, in entrambi i casi, di regole/leggi tributarie che andranno a  sostituire (abrogandole) quelle nazionali.

L’inevitabile conclusione che ne discende, evidentemente, è la seguente:

-          Le disposizioni nazionali interne non sono considerate sufficientemente eque da poter essere standardizzate e rese universali (rectius, la morale relativa non è in grado di garantire comportamenti etici universali).

Alla luce della complessiva analisi critica che precede, appare ora palese a tutti come l’assioma iniziale “Pagare le tasse è un dovere etico”, necessiti di indispensabili precisazioni, senza le quali risulta ben lungi dal poter essere condiviso.

Laddove, infatti, le tasse da pagare siano stabilite da una giustizia equa (ossia, da un sistema giudiziario che applica delle regole/leggi aventi una condivisa valenza generale), la precedente affermazione assume la veste di imperativo categorico kantiano; ergo, non esiste al mondo ragione alcuna per non rispettarlo integralmente.

Se, però, abbiamo a che fare con delle regole/leggi che cambiano a seconda della nazione (collettività) in cui ci troviamo, da un lato, appare impossibile sapere quali siano quelle “giuste” fra tutte quelle esistenti; dall’altro, si evidenza un’innegabile problematica etica in forza della quale: posto che solo le regole/leggi universali recano con sé principi moralmente condivisibili, ne deriva che è un dovere etico pagare soltanto le tasse imposte da queste norme.

E’, invero ovvio, che non potrò certo affermare che sia etico pagare delle tasse immorali.

Parafrasando l’esempio kantiano, lo faccio perché in caso contrario verrei punito; ma qui la motivazione morale non può esistere, atteso che mi si richiede di rispettare un precetto immorale: ossia, adottare un comportamento di sicuro non etico.

Dopo di che, sgombriamo subito il campo da facili equivoci: svolgere un’attività di pianificazione fiscale internazionale etica (cioè, improntata su condivisibili precetti morali di valenza generale), non è solo corretto, ma – oseremo dire – moralmente auspicabile. Detta attività dovrà però essere rivolta esclusivamente alla ricerca di quella equità fiscale, rispettosa dei principi cardine della fiscalità internazionale (quali: il Nexus Approach, l’Arm’s Length, la libertà di circolazione, di residenza e di produzione dei redditi in qualsiasi regione). Così come del resto, si è cercato di esplicitare attentamente nel testo, stigmatizzando l’elusione fiscale internazionale delle grandi multinazionali, rispetto a quelle che viceversa sono semplici e ordinarie ipotesi di legittimo risparmio tributario sovranazionale (pur nelle attuali lacune legislative internazionali, che permangono e che si spera vengano presto colmate).

Tirando le somme, dunque, data la domanda:

-          E’ possibile sviluppare un’attività di pianificazione fiscale internazionale etica, che sia cioè improntata su condivisibili precetti morali?

La risposta non può che essere:

-          Sì, senza ombra di dubbio!

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