Paolo Soro

Lavoratori stranieri in Italia e concorrenza sleale da disuguaglianze salariali: un problema etico

Riportiamo sotto forma di articolo, la relazione svolta dal Dr. Paolo Soro, al Convegno nazionale tenutosi a Firenze lo scorso 18.11.2016, dal titolo: NOVITA’ IN MATERIA DI LAVORO - Riflessioni interdisciplinari sulla gestione dei rapporti di lavoro, nell’ottica della creazione di valore per le imprese e per il Paese.

La Costituzione stabilisce che:

“L'iniziativa economica privata è libera; ma non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla dignità umana.”

Dunque, sono libero, ma non posso fare…

La domanda che allora occorre subito porsi è la seguente:

Sono libero o non sono libero?

Non è che c’è una sorta di contraddizione in termini in questo fondamentale precetto costituzionale?

Ma, innanzitutto, vediamo di rinfrescarci molto brevemente la memoria sull’attuale situazione normativa.

Un cittadino straniero può lavorare in Italia per conto di un’impresa nazionale, oppure nella veste di dipendente distaccato da azienda estera.

Ovviamente, oltre ai distaccati, esistono anche i trasfertisti, ma questi lavorano comunque alle dipendenze di un’impresa assoggettata alla normativa locale. Viceversa, nelle ipotesi di distacco, il dipendente resta in forza al datore di lavoro distaccante, e quindi alla normativa ordinaria di base cui quest’ultimo è soggetto.

Tornando ai lavoratori stranieri, nel primo caso (datore di lavoro italiano), evidentemente, non vi possono essere differenze salariali di sorta con qualunque altro dipendente italiano dello stesso datore di lavoro: si applica (o, quanto meno, dovrebbe) la normativa interna.

Nel secondo caso (datore di lavoro distaccante estero), viceversa, le norme potrebbero variare in funzione del Paese di provenienza; vale a dire:

I)        I ventotto Stati dell’UE, la Svizzera e le nazioni dello Spazio Economico Europeo (Norvegia, Islanda e Liechtenstein);

II)      I Paesi extra-UE convenzionati;

III)    I Paesi extra-UE non convenzionati.

Senza andare a ricercare l’improbabile ipotesi di qualche esotico lavoratore, strappato alla sua diuturna occupazione di intrecciatore di palme a Bora-Bora, per essere distaccato come intessitore di filati a Prato, limitiamoci a focalizzare l’attenzione sulle ipotesi più frequenti.

L’Accordo sulla libera circolazione dei lavoratori (in vigore dal giugno del 2002), conferisce il diritto di ingresso, di soggiorno e di accesso a un’attività economica dipendente, il diritto di stabilimento quale lavoratore autonomo, e il diritto di rimanere sul territorio, garantendo le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro di cui godono i cittadini nazionali; in particolare, in materia di: retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato.

Il lavoratore dipendente (e i membri della sua famiglia) godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori dipendenti nazionali (e dei membri delle loro famiglie).

I cittadini di una Parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di un’altra Parte contraente, non sono oggetto, nell’applicazione di dette disposizioni, ad alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità.

Non sappiamo cosa succederà in Svizzera dopo il recente referendum del Canton Ticino contro i lavoratori stranieri, ma resta il fatto che l’Accordo appena richiamato è la norma generale cui tutti, anche la Confederazione elvetica, si devono oggi rifare.

Esiste una pletora di pronunce della Corte di Giustizia europea, che condanna sistematicamente le Giurisdizioni, le quali, in ossequio a delle sotto-ordinate normative interne, creano un qualunque ostacolo alla libera circolazione del lavoro e/o dei lavoratori.

Pare, infatti, superfluo rammentarlo, ma, nella gerarchia delle fonti, dopo la Costituzione, comandano le norme comunitarie e convenzionali; e, solo dopo queste, vi sono le ordinarie leggi dello Stato.

A tal riguardo, l’Italia ha sostanzialmente recepito detta normativa comunitaria con il D.Lgs. 136/2016 e il successivo DM 10 agosto 2016, norme che mirano a evitare le disuguaglianze salariali, prescrivendo obblighi di: preventiva segnalazione, nomina referente locale e conservazione del contratto in lingua italiana. Peraltro, da un lato, l’apparato sanzionatorio appare di difficile attuazione pratica nei confronti di un datore di lavoro distaccante estero, e dall’altro, non è affatto pacifica l’applicazione di sanzioni in capo al datore di lavoro distaccatario italiano, quanto meno una volta che sia stato accertato che siamo di fronte a una reale ipotesi di distacco.

In ogni caso, possiamo dunque affermare che, prima ancora di tirare in ballo problemi etici, anche da un punto di vista prettamente normativo, appare imprescindibile garantire che i dipendenti stranieri provenienti da Paesi che hanno livelli salariali inferiori, lavorino a condizioni paritetiche a quelle previste per i dipendenti locali.

I motivi sono essenzialmente due:

1)      Quello che possiamo chiamare come il Nexus Approach OCSE di matrice fiscale, applicato in materia di lavoro

2)      La concorrenza sleale connaturata a qualunque politica di dumping sociale

Nexus Approach

Il Nexus Approach, enunciato dall’OCSE nell’Action 5 del BEPS, in materia di Intellectual Property, interviene a garantire la connessione tra i ricavi e i costi che li originano e, più in generale, che un imprenditore, il quale opera in differenti Paesi, paghi le imposte proporzionalmente alla quantità di reddito prodotto in ciascuno Stato.

Ebbene, senza bisogno di essere degli esperti di economia, è evidente a tutti che, analogamente, anche il costo del lavoro, come qualunque altro connesso fattore economico, debba essere commisurato e applicato al mercato (e, dunque, al territorio) in cui viene reso.

Concorrenza Sleale

Per quanto poi concerne le problematiche legate alla concorrenza sleale, occorre senza dubbio premettere come sia giusto che un imprenditore più capace degli altri (perché sa amministrare meglio, perché ha l’idea innovativa, perché è più bravo a lavorare) venga premiato dal libero mercato e ottenga un guadagno superiore ai propri competitor.

E’, viceversa, profondamente ingiusto (ancorché illegittimo) che detto plus-valore sia dovuto solo a delle disuguaglianze salariali, attraverso cui l’imprenditore può esercitare politiche di dumping (ossia, praticare prezzi inferiori), così operando in regime di concorrenza sleale e accaparrandosi la clientela in modo illecito.

A tale situazione, risulta davvero utopistico pensare di porre rimedio facendo appello alle normative, e intraprendendo un percorso di carattere giudiziario. E ciò non foss’altro perché, al di là dei costi esorbitanti, prima anche solo di capire quale sia l’Autorità competente per ogni specifica fattispecie, un’azienda farebbe in tempo a chiudere i battenti; e, comunque, i vantaggi illeciti (e, per contro, i danni) avrebbero già avuto materiale esecuzione, con ardue probabilità di rivalsa.

Ed ecco allora che si pone un problema etico di fondo che può essere risolto solo da persone morali. Ma sono tutti gli attori che agiscono nel mercato, delle persone morali? Evidentemente, no; in caso contrario non avremmo questi problemi.

Inutile, scaricare le colpe sugli altri: sui dipendenti rumeni che accettano queste condizioni… sullo Stato che consente loro di lavorare… etc.

Se questi soggetti vendono, qualcuno compra… e non sono certo i loro compatrioti.

Il nostro ipotetico cliente triestino che protesta per la concorrenza sleale dell’azienda slovena che produce gli stessi beni a un prezzo inferiore, sfruttando le disuguaglianze salariali; si pone lo stesso problema quando acquista magari gli arredi del suo ufficio a un prezzo inferiore da un’azienda slovacca che perpetra, indirettamente, identiche politiche di dumping nei confronti di altri mobilifici italiani?

Non ci risulta…

Abbiamo tirato in ballo più volte termini come “Etica” e “Morale”. Ma, state pur tranquilli, non lo abbiamo fatto perché, oggi, va di moda: il lavoro etico… le imprese eticamente sostenibili… l’etica professionale… Piuttosto, perché siamo convinti che tutti quanti dovremmo eseguire una profonda analisi riflessiva, al fine di comprendere come il mero compimento di sporadiche azioni moralmente condivisibili, non sia certo sufficiente, di per sé solo, a far sì che ciascuno possa auto-proclamarsi un essere morale rispettoso delle leggi. E le storture che dobbiamo diuturnamente affrontare nello svolgimento della nostra professione, gli effetti distorsivi che originano da norme (già di per sé stesse, a volte amorali) contro cui siamo costretti a combattere obtorto collo, ad avviso di chi scrive, dipendono proprio da una largamente diffusa assenza di moralità.

Rivediamo, solo un momento, detti concetti di etica e morale, spesso erroneamente trattati come esatti sinonimi.

La morale indica tutto ciò che è buono, retto e onesto… ossia, in generale, il bene (secondo Bertrand Russell).

L’etica indica tutte quelle norme comportamentali della vita pubblica e privata, che un essere morale deve perseguire.

Ma, attenzione, che nel comportarsi in maniera etica, la morale auspica che siano buone e giuste le intenzioni, prima ancora delle azioni considerate fini a sé stesse.

Per Kant non è tanto importante l’azione che un uomo compie (esempio: ha trovato un portafoglio e ne cerca il legittimo proprietario che lo ha perduto); quanto piuttosto la motivazione che lo spinge ad agire così (lo fa perché ritiene ingiusto appropriarsi di qualcosa che appartiene ad altri, o perché una telecamera lo ha filmato mentre lo raccoglieva e ha paura di essere punito?)

In entrambi i casi l’azione di restituire il portafoglio è eticamente corretta; ma solo nel primo caso abbiamo a che fare con un essere morale.

Bene, vediamo ora di applicare il pensiero all’odierno thema decidendum.

Abbiamo già avuto modo di precisare che le norme ci sono, ma, essendo fra di loro male amalgamate, consentono alla libera iniziativa privata di poter perseguire dei fini illeciti. La morale ci consentirebbe di combattere e sconfiggere questo illegittimo comportamento, semplicemente rifiutando di acquistare i beni e i servizi offerti da quelle aziende che non rispettano le normative salariali nazionali.

Ma gli Italiani, popolo di furbi per antonomasia, male accetta che qualcuno voglia venire a fare il furbo in casa loro; così, scatenano tutto il loro “peggior ingegno”. D’altronde, lo spirito di emulazione non presuppone nemmeno grandi capacità. Il ragionamento è: se lo fa lui, sono capace di farlo anch’io; costituisco una società in un Paese dove il costo del personale è molto basso e poi distacco i dipendenti stranieri presso una mia consociata italiana e abbatto i costi della manodopera nazionale.

Comportamenti, di certo, tutt’altro che etici, i quali ci danno ulteriore dimostrazione di quanto sia importante interrogarsi sull’innegabile esistenza di un problema etico di fondo che deve essere risolto, se davvero vogliamo non dover più subire questa insostenibile illegittima situazione.

E’ evidente a tutti che, laddove le norme non si dimostrino efficienti (per qualsivoglia motivo), viene richiesto uno sforzo morale a chi dovrebbe osservarle. Se, in tali soggetti, il livello di moralità non è nemmeno appena, appena sufficiente, sarà impossibile pensare di comportarsi in modo etico e, di conseguenza, restituire la giusta efficacia alle leggi in questione.

Proviamo, ora, per un attimo a vestire i panni del “nemico”.

Non c’è nulla di moralmente sbagliato nel lavorare in Italia, utilizzando i propri dipendenti stranieri; anche perché non esiste una norma che lo vieti. Abbiamo già avuto modo di precisare che, semmai, l’Accordo sulla libera circolazione vieta che ciò non avvenga, ma nel contempo, però, disciplina anche i termini entro cui questo deve avvenire. Non possiamo, quando ci fa comodo, tirare in ballo la norma europea, e però applicare nella sostanza la norma di diritto interno a noi più favorevole nella fattispecie in esame.

E, attenzione, non è vero che la cosa sia moralmente accettabile.

Qui, infatti, si pone il problema afferente la diatriba tra morale oggettiva (o, se preferite, universale) e soggettiva (o relativa alla collettività di cui è emanazione).

Per quanto uno possa essere convinto che la morale sia relativa, è evidente che non possa pretendere di applicare questa sua morale anche quando va in un’altra collettività, la quale considera eticamente corretti dei comportamenti differenti.

Insomma, le cose sono due:

-          se accetto la tesi della morale relativa, dovrò per ciò stesso pure accettare quella della collettività in cui mi trovo: ergo, non posso pretendere di remunerare i miei dipendenti distaccati in Italia così come remunero quelli che lavorano nella mia patria;

-          se accetto, viceversa, la tesi della morale oggettiva, dovrò accettare e seguire tutte le disposizioni oggettive previste dall’Accordo europeo sulla libera circolazione, che, come anzidetto, impongono di assicurare le medesime condizioni salariali a coloro che operano nello stesso mercato, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza.

Tertium non datur!

Coloro i quali hanno pensato di aver svelato l’uovo di Colombo con le loro furberie, obietteranno che l’iniziativa economica privata è libera e, in un mondo liberale, deve essere garantito tale loro agire. Agire che, peraltro, non risulta essere né etico, ossia proprio di uomini morali (come appena chiarito), e né tanto meno liberale, ossia effettivamente garante della libertà: vediamo subito perché.

Ci si rifà, in sostanza, proprio a quell’art. 41 della Costituzione citato inizialmente. Il primo comma recita, in effetti, che l’iniziativa economica privata è libera. Ma, come detto, lo stesso articolo precisa poi che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recar danno alla dignità umana. E il comma successivo impone allo Stato di porre delle regole (rectius, leggi) che consentano l’esplicarsi di tale libertà solamente a determinate condizioni.

Riprendiamo il quesito iniziale: Sono libero o non sono libero? Posso operare liberamente, oppure, sì, sono libero, ma certe cose non le posso fare?

Alcuni probabilmente avranno nella loro mente risposto: non c’è contraddizione; semplicemente la mia libertà è parzialmente condizionata; una sorta di libertà relativa.

A quelli che hanno pensato questo, dobbiamo dare una brutta notizia: se gli alunni di John Stuart Mill (autore del testo “Sulla Libertà”, nonché universalmente riconosciuto come uno dei maggiori teorici della materia) avessero dato una simile risposta all’esame, sarebbero stati inesorabilmente bocciati. Non esiste la libertà condizionata! È un nonsenso! Un predicato che contraddice il soggetto stesso! Una definizione antinomica! Così come, all’opposto, parlare di libertà totale, in realtà è pura tautologia. La libertà è libertà; se vengono posti dei divieti, non è più libertà, ma solo il permesso di fare determinate cose.

A questo punto, si staranno sfregando le mani quelli che, viceversa, ragionando mentalmente sul quesito, avevano pensato che: In effetti, sì, c’è una sorta di contraddizione in termini nel dettato costituzionale; non siamo davvero liberi. Ebbene, ci spiace anche per voi, ma siete caduti in un grosso equivoco. Per usare un termine a noi poco caro ma che rende perfettamente l’idea, il principio costituzionale è sacrosanto; non esiste alcuna contraddizione; anzi, è proprio e solo in questi termini che si consegue la vera e unica libertà.

Se tutti fossero liberi di calpestare i diritti del proprio prossimo nel nome di una presunta libera e incondizionata iniziativa economica privata, non ci sarebbe libertà, ma solo una “libertà per i potenti”. Dunque, anche in questo caso, una sorta di condizione che viene aggiunta nel predicato, atta a farci ricadere in una nuova definizione antinomica (seppure sotto altri versi).

La libertà è tale, solo se è libertà per tutti.

Il laissez-faire, in qualunque campo applicato, ha creato solo disastri, a incominciare dall’economia. Pensare che la libertà non possa essere disciplinata da opportune regole, porterebbe alla sua peggiore degenerazione: un mondo di pura anarchia, dove i più forti sono liberi di privare i più deboli della loro libertà.

Tutti noi siamo concordi sul fatto che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri. Non si tratta di una libertà vincolata o condizionata o relativa, ma solo di un precetto atto a garantire che la libertà sia tale per tutti; ossia, l’unica vera libertà.

Montesquieu, il primo teorico dell’indispensabile separazione dei tre poteri giudiziario, legislativo ed esecutivo, nel suo saggio scrive:

“La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono”.

Ebbene, libertà e morale sono fra di loro indissolubili: l’una esiste in funzione dell’altra e viceversa (Kant, al riguardo, parla di ratio essendi e di ratio cognoscendi). Senza libertà, si hanno le disuguaglianze, ossia, comportamenti non etici, dunque un mondo privo di morale. E, d’altronde, se l’uomo non è libero, non può essere nemmeno considerato moralmente responsabile.

Da questo punto di vista, nel quotidiano svolgimento della nostra professione, tutti noi possiamo fare molto, sia riflettendo sul nostro agire che cercando di educare a ciò i nostri clienti più riottosi.

In conclusione, dunque, laddove non intervengano in maniera adeguata le leggi, deve essere la nostra morale a indicarci i comportamenti etici da seguire per attenuare le situazioni più gravi, come per l’appunto quelle connesse alla concorrenza sleale originata dalle disuguaglianze tra lavoratori italiani e stranieri.

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