Di recente, ci è capitato di leggere un articolo sul sito dell’Economist che parlava di un notevole traffico finanziario proveniente dalle banche degli Stati offshore caraibici, in transito, non più nelle grosse banche USA, ma in quelle canadesi. Sul momento abbiamo imputato la causa al famigerato FATCA, dal quale si cerca a tutti i costi di restare fuori.
Dopo di che, però, nel numero di una delle tante newsletter internazionali cui siamo abbonati, è apparso un bellissimo report che indicava – tra l’altro – come molte grandi multinazionali, da qualche anno a questa parte, tendano a localizzare la loro sede legale (e connessa residenza fiscale) in Canada.
Due indizi non fanno necessariamente una prova, ma, a questo tipo di coincidenze, crediamo poco. Il Canada è una bellissima nazione, sia dal punto di vista naturalistico che economico; il welfare e l’assistenza sanitaria sono di altissimo livello; elevato è anche il tenore di vita; le aziende sono in generale all’avanguardia e molte sono pure le occasioni lavorative. Unico neo, se vogliamo, il fatto che in tante città sia necessario vivere al “coperto” per gran parte dell’anno, a causa delle temperature piuttosto rigide.
Ma nulla di tutto ciò può essere di un qualche interesse per quanto riguarda la scelta della localizzazione della propria sede da parte di una multinazionale.
Siamo, dunque, andati ad approfondire un pochino il locale sistema fiscale.
Un’altra “spia” si accende immediatamente, allorché, man mano che procediamo, ci rendiamo di essere subito di fronte a dei meccanismi tutt’altro che semplici e lineari: e, come noto, maggiore è il grado di complessità, più elevate sono le opzioni che si possono presentare, specie in materia di fiscalità internazionale.
Di regola, un cittadino italiano residente viene tassato in Italia per tutti i redditi ovunque prodotti nel mondo, salvo eventuale credito sulle imposte già versate all’estero a titolo definitivo. Un cittadino straniero, residente fiscalmente in Italia, viene tassato nel nostro caro Belpaese per tutti i redditi ivi prodotti (secondo i limiti fissati dalle eventuali convenzioni bilaterali/multilaterali in vigore). Un cittadino italiano, fiscalmente residente in un altro Paese, viene infine tassato in Italia per i soli redditi eventualmente qui prodotti.
Possiamo dire che questo sistema di tassazione è quello principalmente utilizzato un po’ in tutto il mondo. Viceversa, il Canada utilizza una sorta di sistema misto, combinato tra tassazione territoriale e mondiale.
I contribuenti persone fisiche sono assoggettate a imposizione in funzione solo della loro residenza fiscale, e indipendentemente dall’effettiva cittadinanza. La tassazione concerne il reddito ovunque prodotto nel mondo (worldwide principle).
Ciò premesso, il governo consente ai residenti di acquisire la cittadinanza canadese dopo circa 3 anni, assicurando loro nel contempo un’esenzione quinquennale pressoché totale, su redditi e patrimoni conferiti in trust offshore, localizzati in giurisdizioni a bassa fiscalità.
Viceversa, i cittadini canadesi, residenti fiscalmente in altre nazioni, ovviamente non subiscono alcuna tassazione in patria sul loro reddito mondiale, conseguito all’estero.
Laddove, inoltre, le plusvalenze e gli altri redditi siano originati da attività svolte in Canada, anche i cittadini non residenti dovranno corrispondervi le relative imposte.
Di fatto, infine, non esistono le tasse di successione.
Partendo da tali premesse di carattere generale, proviamo a formulare un’ipotesi pratica.
Un cittadino straniero (ovviamente, benestante), ordinariamente soggetto a imposizione nel suo Paese, trasferisce la propria residenza fiscale in Canada e conferisce in un trust internazionale offshore i suoi beni (incluse partecipazioni e, dunque, potenziali redditi da distribuzioni di utili o da plusvalenze – passive income). Detti beni e redditi non devono originare da attività canadesi.
Ebbene, il neo-residente fiscale in Canada non corrisponde le imposte in questione per un periodo di 5 anni, durante il quale ha la possibilità di richiedere passaporto e cittadinanza canadesi. Dopo di che, prima che si concluda il quinquennio esentasse, da novello cittadino canadese, esercita l’opzione per lo status di non residente fiscale in Canada. A quel punto, anche se l’esenzione è terminata, non essendo più assoggettato all’Erario locale, non deve corrispondere alcuna imposta, perché – come detto – i cittadini canadesi, non residenti fiscalmente in Canada, non sono assoggettati a imposizioni per i loro redditi non prodotti in Canada.
Senonché, trattandosi di trust internazionali offshore istituiti in giurisdizioni “paradisiache”, non si comprende in quale Paese andrà mai a versare le imposte questo cittadino, per il quale: mater certa est, “patria” numquam. Forse, solo conoscendo la squadra per cui fa il tifo, riusciremmo finalmente a capire a quale Autorità Fiscale appartengono i suoi redditi.
Battute (ma nemmeno tanto) a parte, per così dire dulcis in fundo, in una situazione simile, non ci sarà nemmeno alcuno scambio di informazioni. Chi mai, infatti, potrebbe attivarlo? Lo Stato paradisiaco? Evidentemente, no. Il Canada? Neppure, considerato che non avrebbe alcun dato reddituale da poter comunicare. Ma la cosa più “divertente” è che, in tali fattispecie, non si pone nemmeno un problema di Common Reporting Standard, atteso che non c’è ragione perché vi sia alla base una richiesta di informazioni.
Poniamo il caso che il nostro aspirante canadese sia un cittadino italiano (c’era da aspettarselo); quindi, assoggettato a uno dei regimi tributari più attenti e pressanti (in tutti i sensi) che esistono. Nel momento stesso in cui si trasferisce in Canada e ivi risiede regolarmente per oltre 183 giorni per anno fiscale, viene meno la potestà impositiva fiscale della nostra Agenzia delle Entrate. Ergo, l’Italia non ha motivo di attivare il CRS. E d’altro canto, al fisco canadese, considerata la normativa di particolare esenzione prima individuata, poco importa di avere informazioni sui potenziali redditi stranieri. Per non parlare poi, ovviamente, dell’eventuale giurisdizione paradisiaca del caso.
Ecco che, come per magia, ops, il reddito c’è ma non si vede: nessuno sa niente e di tasse da versare nemmeno l’ombra.
La problematica principale da affrontare resta, dunque, tutta circoscritta alla sola iniziale acquisizione della residenza canadese, onde avere diritto all’esenzione quinquennale dalle locali imposte federali.
Orbene, in generale, la verifica dello status di residente canadese avviene sulla base dei seguenti criteri:
- Il luogo in cui si lavora
- Il luogo in cui si vive per la maggior parte del tempo
- Il luogo in cui si riceve la posta
- Il luogo in cui risiede la famiglia
- Il luogo in cui si svolge effettivamente la vita sociale e di relazione.
Dunque, per contro, la residenza fiscale in Canada non verrà concessa se:
- Normalmente, abitualmente o per routine si vive in un altro Paese
- Non si ha alcun significativo legame residenziale in Canada
- Si vive fuori dai confini canadesi durante il tipico anno fiscale
- Si risiede in Canada per meno di 183 giorni nel corso dell’anno fiscale.
Insomma, risparmiate qualcosa in tasse e compratevi abiti pesanti perché l’inverno canadese è duro, e non potete passarlo alle Barbados se non volete che finisca la pacchia.
Dopo tale particolare normativa, è bene, a scanso di equivoci, precisare subito che, contrariamente a quello che certuni potrebbero pensare, il Canada è un Paese white list a pieno titolo: lo scambio di informazioni è conforme alle Raccomandazioni dettate dall’OCSE e, soprattutto, l’imposta è più che congrua, considerato che l’aliquota sui redditi personali arriva anche al 54%.
Fino a qui, però, abbiamo parlato di contribuenti persone fisiche. Vediamo che succede con le società multinazionali, le cui movimentazioni ci avevano inizialmente incuriosito.
Tra i dati statistici resi pubblici dal Dipartimento delle Entrate Federali, salta fuori che, in svariati casi, talune aziende canadesi multinazionali hanno subito una tassazione netta finale pari a circa il 2% dell’utile prodotto. Superfluo evidenziarlo, ma, se l’aliquota media d’imposta fosse davvero questa, saremmo ben al di sotto di qualunque limite minimo prefissato per un “Paese White”.
D’altronde, come ha sempre evidenziato l’OCSE nelle varie sue Linee Guida, indipendentemente dall’aliquota d’imposta fine a sé stessa, assume particolare importanza la trasparenza fiscale: ovverossia, la possibilità per un governo di individuare immediatamente i contribuenti effettivi beneficiari, nonché la natura e la provenienza dei redditi da questi ultimi prodotti.
A tal proposito, da qualche anno, si stanno sempre più implementando, sia qualitativamente che quantitativamente, gli accordi sullo scambio di informazioni tra i vari Paesi di tutto il mondo (Tax Information Exchange Agreement – T.I.E.A.).
Ebbene, l’Amministrazione Finanziaria canadese, per incentivare tale politica di trasparenza fiscale, ha pensato bene di garantire, a tutte quelle aziende che avessero intrapreso una nuova attività presso uno Stato nei confronti del quale era in vigore uno dei suddetti accordi sullo scambio di informazioni, un regime tributario particolarmente favorevole, che si sostanzia di fatto in un’esenzione abbastanza generalizzata sui profitti da passive income conseguiti.
In linea di massima, tale misura di politica economico-fiscale, oltre che essere apprezzabilissima per incrementare la produzione e il PIL, è senz’altro molto utile agli effetti del mantenimento di un corretto equilibrio nella bilancia dei flussi finanziari da e verso l’estero.
Dove sta, allora, il problema?
Ovviamente, dipende da qual è lo Stato estero con cui si sottoscrivono detti accordi: da un lato, sono proprio le giurisdizioni “paradisiache” quelle con cui occorrerebbe firmare i T.I.E.A. per aumentare la trasparenza di tali regimi; per altro verso, però, è naturale che le multinazionali sono subito pronte a sfruttare la ridotta imposizione fiscale vigente in simili nazioni.
Lo schema diventa abbastanza semplice: la multinazionale localizza la propria sede legale in Canada, essendo così assoggettata alla locale policy tributaria. Dopo di che, vengono aperte delle subsidiary in qualcuno di questi Paesi caraibici con imposizione irrisoria, e si organizza il lavoro in modo tale da far risultare come assolutamente rispettoso del principio OCSE del Nexus Approach, il fatto che i guadagni debbano essere tassati nel “paradiso fiscale” di turno.
Per esempio, nelle citate Barbados, l’aliquota d’imposta sui profitti è pari al 2,5%. Ebbene, le Barbados hanno in vigore Convenzione e T.I.E.A. col Canada. Pertanto, la holding canadese cerca di concentrare tutti i profitti presso la controllata delle Barbados; questa paga il 2,5% di imposta; dopo di che il passive income approda presso la controllante in Canada; la quale, sfruttando l’anzidetta normativa di esonero impositivo, non ha alcun obbligo di versare ulteriori tributi su tali profitti. Anzi, in relazione a determinati incentivi previsti per investimenti esteri, quel 2,5% iniziale potrebbe, alla fin fine, persino azzerarsi.
Tutto legittimo. Tutto alla luce del sole (movimenti bancari inclusi). Tutto ufficializzato dalla stessa Amministrazione Fiscale canadese. E, d’altronde, se in funzione al citato Nexus Approach, è corretto che la controllata caraibica dichiari in massima parte i profitti, nulla è possibile obiettare. Resta l’evidente falla normativa (o, se preferite, la mancanza di coordinamento fra le leggi dei differenti governi), nella quale risulta abbastanza semplice incunearsi e ottenere dei vantaggi sostanzialmente ingiusti, seppure formalmente leciti.
Povero Obama e la tua ridicola crociata fiscale: questa volta, il Canada ti ha fregato e i proventi finanziari se li beccano i loro istituti di credito, lasciando le lobby bancarie dello “Zio Sam” a bocca asciutta.