Paolo Soro

Parola d’ordine: semplificazione

Arriva al traguardo anche l’ultimo dei provvedimenti attuativi del Jobs Act: si tratta del decreto che, in un’ottica generale di “semplificazione”, indica le modalità di comunicazione delle dimissioni da parte dei lavoratori. Ci sarà da divertirsi…

Parafrasando un noto proverbio, si potrebbe dire che questo Governo una ne pensa e cento ne fa… male (purtroppo).

Come noto, con il Decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 15 dicembre 2015 (recante: “Modalità di comunicazione delle dimissioni e della risoluzione consensuale del rapporto di lavoro”), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale N. 7, dell’11 gennaio 2016, il Governo ha dato attuazione all’art. 26, comma 3, del Decreto Legislativo N. 151 del 2015 (ultimo, in ordine cronologico, del Jobs Act).

Gli antichi romani dicevano nomen omen (letteralmente: il nome come augurio). Renzi, con la sua allegra combriccola di “bravi” (per carità, non in senso manzoniano; restando in tema: absit iniuria verbis), evidentemente, il latino non lo conoscono; in caso contrario avrebbero evitato di intitolare il decreto in questione: “Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese….”

Razionalizzazione e semplificazione di adempimenti a carico di cittadini e imprese?

Ebbene, vediamo in cosa consiste quest’ultimo (in ordine di tempo, ma ne verranno di sicuro degli altri, ahinoi) regalo renziano che punta a semplificarci la vita burocratica lavorativa.

Trattasi del caso – in Italia – poco frequente, ma che, a volte capita, relativo alle dimissioni di un lavoratore. Il Governo ci tiene talmente tanto ai dati statistici che fa di tutto, ma proprio di tutto (oseremo dire, ai limiti della soglia d’incostituzionalità), pur di evitare a qualsiasi costo che un dipendente si dimetta e finisca per incrementare il numero degli iscritti nelle liste dei disoccupati.

Le dimissioni dovrebbero essere un atto semplicissimo, proprio perché rappresentante una dichiarazione unilaterale di volontà di un soggetto, il quale, nella maggior parte dei casi, certo non ha le necessarie conoscenze tecnico-giuridiche per essere costretto a svolgere chissà quali adempimenti, se ci tiene a non lavorare più all’interno di una determinata azienda.

A noi pare che niente di più facile vi sia nel prendere un foglio di carta, una penna e scrivere: “Il sottoscritto Pinco Pallo rassegna le proprie dimissioni”. 

Per il Governo, invece, questa azione è particolarmente complessa e occorre studiare una procedura più semplice. Ed ecco cosa ha pensato per facilitarla.

Le dimissioni (e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro) devono essere presentate, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali attraverso il suo sito www.lavoro.gov.it e trasmessi al datore di lavoro e alla competente Direzione Territoriale del Lavoro.

Il lavoratore ha due alternative (tertium non datur – sempre per dirla alla maniera degli antichi romani):

1)      registrarsi sul portale “Clic Lavoro” e richiedere il PIN INPS mediante il quale potrà avere accesso alle funzionalità disponibili nel citato sito lavoro.gov.it, le quali gli permetteranno (sempre che non funzioni come il ben conosciuto sistema Entratel) di trasmettere il modulo per le dimissioni, per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, o per la loro revoca;

oppure:

2)      avvalersi di un soggetto abilitato (CAF, patronati, organizzazioni sindacali, enti bilaterali e commissioni di certificazione – che bello, si son scordati i commercialisti!), il quale provvederà in sua vece a eseguire tale comunicazione (gratis?)

Ma, attenzione, attenzione, la cosa non finisce qui. Ebbene, signori e signore, questa volta il Governo si è voluto rovinare e ci ha regalato 2 “semplificazioni” al prezzo di 1 (pare di stare in qualche TV commerciale).

Entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo per la comunicazione delle dimissioni o della risoluzione consensuale, il lavoratore avrà poi la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale, ovviamente, sempre con le stesse modalità telematiche.

Dal canto suo, il datore di lavoro sarà informato in modo automatico attraverso un messaggio di posta elettronica certificata a cui sarà allegato il modulo di dimissioni. A quel punto (e solo a quel punto, ossia in quella data), il rapporto di lavoro in essere può dirsi concluso; beninteso, fatti salvi i menzionati sette giorni di tempo per la revoca (soddisfatti o rimborsati).

Ricordiamo, infatti, che la norma parla di adempimento obbligatorio a pena di inefficacia; ergo, senza l’esecuzione degli adempimenti telematici in questione, il rapporto resta in essere.

E cosa potrebbe succedere?

Presumibilmente, il dipendente, convinto di essersi dimesso, non andrà più a lavorare, e dovrà aspettare un licenziamento disciplinare per ripetute e continuate assenze ingiustificate. Ma, soprattutto (quel che più conta, atteso che nel 99% dei casi, chi si dimette lo fa perché ha trovato un posto migliore), in tutto questo periodo non potrà neppure farsi assumere da un’altra azienda, visto che la cessazione del suo precedente rapporto non risulta regolarmente comunicata e registrata presso il competente Ufficio del Lavoro.

Posto che la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale – come ricordato – è avvenuta l’11 gennaio, dal giorno 12 gennaio 2016, è partito un periodo transitorio di 60 giorni (fino al 12 marzo 2016), entro il quale il Decreto Ministeriale troverà piena operatività.

Resteranno immuni dal virus renzola (ossia, non beneficeranno di tale procedura “semplificata”), i seguenti soggetti (vaccinati):

-          i lavoratori domestici, i quali – a differenza degli altri – sono perfettamente in grado di scrivere le dimissioni a penna su un normale foglio di carta;

-          i dipendenti che risolvono consensualmente il rapporto di lavoro davanti alle commissioni di conciliazione e certificazione, o in sede processuale davanti al giudice del lavoro, organi a cui ben difficilmente si sarebbe potuto imporre di aspettare l’esecuzione delle procedure telematiche di rito;

-          le lavoratrici in gravidanza, nonché le lavoratrici e i lavoratori durante i primi tre anni di vita del  bambino (anche in caso di adozione e affidamento), per i quali resta obbligatoria la convalida presso il servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali competente per territorio. E qui, la disposizione appare doppiamente incomprensibile: perché mai obbligare una lavoratrice in stato di gravidanza a recarsi fisicamente presso una struttura pubblica a fare l’ennesima fila (come se non bastassero quelle che è già obbligata a fare per mille motivi durante il periodo di puerperio), quando l’unica indiscutibile ragione per la quale è stata prevista la citata procedura telematica è proprio quella di garantire che le dimissioni siano effettivamente dovute alla mera volontà (non obbligata) della stessa dipendente?

Da considerare, infine, che il datore di lavoro il quale alteri il modulo per la comunicazione delle dimissioni e della risoluzione consensuale, salvo che il fatto costituisca reato, è punito con la sanzione amministrativa da 5.000 a 30.000 euro. L’accertamento e l’irrogazione della sanzione sono di competenza della Direzione Territoriale del Lavoro (art. 26, comma 5, D.lgs. 151/2015).

Ecco, dunque, un ennesimo esempio di cosa intende il Governo con la sua parola d’ordine: “semplificazione”. Continuando di questo passo, bisognerà che anche la Treccani ne aggiorni il significato.

Perché diavolo volete continuare a “semplificare”? Chi ve lo ha chiesto? A noi, piacciono le cose “complicate”! Abbiamo sempre vissuto e lavorato benissimo così!

Ma andate a “semplificarvi”…

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