Paolo Soro

Una legge su premi e ricompense

Considerato che le sanzioni, pur se sistematicamente inasprite, dimostrano di non essere un adeguato deterrente nei confronti dei cittadini disonesti, pare lecito domandarsi se non potrebbe tornare, viceversa, utile una legge concernente delle ricompense per i contribuenti virtuosi.

Tra le innumerevoli leggi tributarie vigenti in Italia, quelle di più difficile decifrazione, senza dubbio, sono le disposizioni che disciplinano pene e sanzioni: tra preavvisi di irregolarità, avvisi di accertamento, cartelle di pagamento, ravvedimenti brevi, medi o lunghi, calcolare sanzioni e interessi in maniera esatta, applicando correttamente le differenti norme, appare impresa improba anche per un software a ciò specificamente deputato.

La causa principale di tale marasma legislativo è da ricongiungere alla necessità, da un lato, di adeguare sistematicamente le sanzioni già in vigore, dall'altro, di prevedere quelle concernenti i provvedimenti emanandi, posto che qualunque regola, se non sufficientemente assistita dalla relativa pena, appare completamente svilita e priva di valenza, e che, più è elevata l'ammenda, minore sarà la propensione dei cittadini disonesti a violarla. O, almeno, questo è ciò che si è sempre pensato.

Il testo iniziale a cui si sono ispirati in tutto il mondo i governi nel legiferare, è il noto saggio di Cesare Beccaria, dal titolo "Dei delitti e delle pene", risalente all'epoca dell'Illuminismo. A noi pare, peraltro, che sia stato spesso e volentieri travisato il messaggio dell'Autore, il quale reputava indispensabile un sistema sanzionatorio, soprattutto, per prevenire, piuttosto che per reprimere.

Non si vuole, certo, insinuare che i principi di diritto da cui derivano i vari sistemi sanzionatori siano errati: tutt'altro. Ci pare, in ogni caso, utile sviluppare alcune considerazioni in proposito.

La prima è finanche un'ovvietà: rebus sic stantibus, non è possibile parlare di certezza della pena. Sarebbe, dunque, doverosa un'immediata revisione dell'intera materia, sia per darne una visione chiara e semplificata, sia per armonizzarne le differenti fattispecie in modo tale che la Corte Costituzionale non debba essere di nuovo chiamata a giudicare delle leggi che stabiliscono sanzioni più pesanti nei confronti di violazioni meno gravi rispetto ad altre, le quali, viceversa, concernono inadempimenti di minore importanza, con riferimento agli effettivi danni causati.

Un altro pensiero che ci sentiamo di condividere, riguarda le statistiche pubblicate dal Ministero, le quali dimostrano (come accennato all'inizio) che, all'inasprimento delle pene, non corrisponde una diminuzione direttamente proporzionale delle violazioni commesse. Ergo, dovremmo concludere che esistono una serie di concause e di variabili soggettive che intervengono, rendendo inutili quei provvedimenti i quali mirino esclusivamente a elevare le sanzioni, senza che vi sia una reale "ragione sociale" per farlo.

L'ultima considerazione che vorremo svolgere concerne il pensiero regolarmente esplicitato dalla maggior parte degli utenti nei vari social network. Si tratta di una visione disastrosa e per nulla etica del mondo, a cui sembrano uniformarsi, però, anche quei contribuenti che, fino al giorno prima, erano sempre stati ligi ai propri precetti morali. In tali esternazioni si fa strada, infatti, una sorta di rassegnazione sulla base della quale vivere onestamente parrebbe essere diventato del tutto inutile.

Dobbiamo precisare al riguardo che, come insegnato dal più grande filosofo della morale, Immanuel Kant, se una persona ha in sé corretti principi etici, compie determinate azioni, non certo in funzione dei comportamenti e/o cattivi esempi altrui, ma solo perché ritiene giusto svolgere sempre e comunque il suo dovere (la massima kantiana è: il dovere per il dovere).

Per cui, non possiamo in alcun caso scusare coloro che infrangono le regole perché:

- gli imbroglioni vivono bene e, o interviene qualche condono, o modificano la normativa, fatto sta che non vengono quasi mai puniti;

- chi governa e legifera, in realtà, è proprio il primo a non rispettare quelle stesse norme che ha pensato, approvato e sottoscritto;

- tutto sommato, lo Stato non fa niente per noi; perché allora dovremmo essere sempre noi a fare qualcosa per lui?

Tutti questi pensieri, torniamo a ribadirlo, oltre a essere - fin dalla base - profondamente sbagliati, non sono senz'altro propri di una persona morale.

Cionondimeno, sforzandoci di assumere una prospettiva meramente utilitaristica, non possiamo negare che potrebbe essere alla fin fine conveniente per il Paese, istituire una legge che, a fronte delle norme attuali concernenti pene e sanzioni per chi sbaglia, altresì prevedesse premi e ricompense per coloro che si dimostrassero particolarmente virtuosi. Sarebbe davvero interessante verificare se, comparando il volume delle uscite relative all'erogazione dei premi con la presumibile diminuzione dei danni subiti per colpa di chi infrange le regole, l'effettivo saldo netto finale (per intenderci, quello che nel mondo anglosassone è chiamato "bottom line"), risulterebbe a vantaggio dello Stato (oltre che - questo è indubbio - espletare compiti di utilità sociale).

D'altronde, esistono già oggi delle forme di ricompensa: pensiamo, a esempio, al regime premiale per alcune categorie di contribuenti obbligati alla predisposizione degli studi di settore. Certo, in questo caso i risultati ottenuti finora dalla norma non parrebbero così significativi. Per contro, occorre considerare anche che il premio, concretamente, non è che sia poi tanto allettante.

Sia ben chiaro, non ci stancheremo mai di scrivere che si tratterebbe di un qualcosa che non persegue un fine etico: non devo essere premiato per avere compiuto il mio dovere; il premio è rappresentato dalla gratificazione personale che ciascuno di noi liberamente sente, appunto, ogni qualvolta svolge il proprio dovere.

In ogni caso, non possiamo esimerci, nella nostra veste di osservatori critici, dal far finta di non sapere o non vedere che:

1) viviamo in un mondo in cui ogni collettività si arroga il diritto di essere l'unica depositaria della vera morale (con ciò auto-dichiarando una "non-morale vera", atteso che la morale è unica, universale e oggettiva - concordiamo pienamente con Kant);

2) l'etica attiene all'insieme dei comportamenti morali del singolo individuo, il quale è parte della collettività; chi governa mira innanzitutto ad assolvere funzioni di utilità sociale, le quali non possono rispondere, laddove considerate fini a sé stesse, a puri requisiti etici, essendo emanazione di un governo che disciplina le regole di condotta dei propri cittadini, rifacendosi a una morale soggettiva (vale a dire, quella che abbiamo appena definito come "non-morale vera").

Insomma, pur essendo per natura contrari a qualunque soluzione che non risulti essere ossequiosa di puri principi etici, dobbiamo - obtorto collo - ammettere che spesso l'unica scelta possibile è quella che obbliga a propendere per il male minore, tra due opzioni comunque negative. Tertium non datur...

Detto in altri termini, la ragione sovente ci invita a essere pragmatici per riuscire a perseguire un fine superiore. Ovviamente, occorre domandarsi quale sia quello che ciascuno di noi considera essere il "fine superiore".

Da tutto questo, poi, deriva un ulteriore inevitabile delicatissimo interrogativo:

E' giusto non rispettare una norma che sia espressione di una "non-morale vera"?

Per approfondimenti sui temi legati alla morale, come al solito, rimandiamo al nostro saggio: "La legge morale - il dovere per il dovere".

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