Paolo Soro

Residenza fiscale e imposte pagate all’estero: il Modello OCSE

Offriamo una sintetica panoramica delle disposizioni contenute nel Modello Convenzionale OCSE con riferimento alle raccomandazioni relative al concetto di residenza fiscale ed eventuali imposte pagate all’estero.

Le imprese, oggigiorno, sono sempre più spesso spinte a internazionalizzarsi e diventare attrici importanti dell’economia mondiale, approfittando di mercati appaganti e ricettivi, posto che gli angusti confini nazionali, nella migliore delle ipotesi, non consentono di massimizzare adeguatamente i profitti.

Tale processo di internazionalizzazione, peraltro, non può prescindere dalla conoscenza della normativa fiscale di riferimento, onde evitare che gli eventuali utili operativi conseguiti vengano, poi, vanificati da errate valutazioni concernenti il reale carico impositivo.

Sembra, dunque, utile esporre le principali norme di riferimento che si ritrovano a livello internazionale nel noto Modello Convenzionale OCSE: l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, con sede a Parigi, comprendente 34 Paesi di tutto il mondo.

E’ appena il caso di ricordare che tale normativa è stata oggetto recentemente di analisi anche da parte della stessa Agenzia delle Entrate, la quale ha ritenuto opportuno fornire in materia delle nuove istruzioni interpretative attraverso la Circolare N. 9/E del 5 marzo 2015, alla quale si rimanda per ogni eventuale approfondimento.

Di regola, vi sono due principi che vengono utilizzati dai vari sistemi fiscali:

1)      il principio di tassazione del reddito prodotto all’interno del Paese;

2)      il world wide taxation principle, ossia il principio di tassazione dei redditi prodotti e/o posseduti globalmente dal soggetto.

Un residente italiano pagherà le imposte in patria, se produce redditi nel territorio nazionale (primo principio), e le imposte sui redditi esteri (in forza del secondo principio). Ciò, peraltro, potrebbe causare una doppia tassazione. Esempio: un soggetto italiano con fabbricato all’estero potrebbe essere chiamato a versare le imposte sia in Italia che nello Stato in cui è situato l’immobile. Al fine di evitare questa duplicazione impositiva, i Governi hanno siglato fra di loro le Convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione, le quali, opportunamente ratificate da apposite disposizioni dell’ordinamento interno, assumono forza di legge.

Dette Convenzioni, sostanzialmente, prevedono:

-          l’imponibilità di un determinato reddito solamente in uno dei due Stati;

-          l’imponibilità in entrambi gli Stati, con l’obbligo di riconoscere il credito d’imposta con riferimento a quanto eventualmente già assolto nello Stato in cui viene prodotto il reddito;

-          l’applicazione di un metodo misto, che prevede l’utilizzo del credito d’imposta, con però un limite massimo impositivo nel Paese in cui è prodotto il reddito.

Di fatto, oramai, tutte le Convenzioni ricalcano lo schema generale previsto dal Modello (appunto) Convenzionale OCSE, denominato, per l’esattezza: Model Convention with Respect to taxes on income and on capital.

Il Modello OCSE è, dunque, uno “schema tipo” di regolamento raccomandato (in teoria, senza vincoli legali; in pratica, seguito da tutti i Paesi firmatari), sia a livello internazionale che nazionale. Si tratta di 31 articoli, suddivisi in 7 capitoli, con il relativo Commentario, il quale ultimo risulta avere un’importanza fondamentale. Tale Commentario, in effetti, inizialmente emanato nel 1963 e approvato all’unanimità dall’organizzazione internazionale nei confronti di tutti gli Stati membri, ai sensi dell’art. 5, comma 1, lettera b), del trattato istitutivo del Modello OCSE, pur non costituendo uno strumento giuridicamente vincolante (è bene ricordarlo), è un documento interpretativo ed esplicativo, il cui contenuto rappresenta il fondamentale punto di riferimento che le Amministrazioni Finanziarie dei singoli Stati usano per orientare il comportamento del contribuente in ambito internazionale.

Ciò precisato, l’articolo 1 del Modello OCSE stabilisce che la Convenzione si possa applicare:

-          Alle persone residenti in uno degli Stati contraenti;

-          Alle persone residenti in entrambi gli Stati contraenti nel caso di doppia residenza.

Orbene, premesso che alcuni Stati hanno scelto di applicare il Modello OCSE ai cittadini (c. d. metodo estensivo), mentre altri Stati hanno deciso di applicarlo ai contribuenti (c. d. metodo riduttivo), questione che causa non poche complicazioni, atteso che – a esempio – un cittadino di uno Stato potrebbe non essere anche ivi residente, la prima domanda cui dare risposta è la seguente:

Cosa s’intende col termine “persona”?

Ebbene, secondo l’articolo 3, le persone devono essere intese quali:

-          Persone fisiche;

-          Società (qualsiasi persona giuridica o ente considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione fiscale);

-          Ogni altra associazione di persone.

È evidente (o, meglio, dovrebbe esserlo) che tale classificazione debba essere recepita a titolo indicativo, o comunque (perlomeno con riferimento all’ultima categoria) in senso particolarmente ampio, dovendovi ricomprendere tutte quelle entità che possono trovare legittimazione in un ordinamento giuridico e non in un altro. L’esperienza giuridica nostrana, per esempio, riporta il caso di un trust cui non è stato riconosciuto il credito d’imposta, esclusivamente per il fatto che detto particolare istituto non poteva essere ricompreso all’interno di una delle summenzionate categorie. A modestissimo parere di chi scrive, questa è una decisione che rappresenta un vero e proprio abominio del diritto: al di là del fatto che il trust è comunque assimilato (in base a una mera convenienza dell’Agenzia delle Entrate, a qualunque altro ente non commerciale, per quanto attiene il pagamento delle imposte e, dunque, non si capisce perché lo stesso non debba trovare valenza con espresso riguardo anche al credito d’imposta), è inaccettabile che vi sia tale discriminazione rispetto alle altre “persone” e, tanto più, è inconcepibile che si debba pretendere una duplicazione d’imposta, così andando contro il principio fondamentale che ispira il Modello OCSE e il relativo Commentario.

Il Commentario dell’art. 1 precisa che lo scopo delle Convenzioni è quello di favorire lo scambio di beni o servizi e il movimento di persone e capitali. Detto obiettivo è perseguito eliminando la doppia imposizione fiscale, ma senza favorire l’elusione o addirittura l’evasione fiscale, attraverso un uso improprio del contenuto dei trattati e delle Convenzioni siglate tra gli Stati. La lotta all’elusione e all’evasione fiscale rimane, infatti, uno degli scopi principali. In merito, quasi tutte le Convenzioni estendono il campo di applicazione della disciplina sullo scambio di informazioni alla lotta all’elusione e all’evasione fiscale. Queste informazioni possono essere detenute da Banche, Istituzioni finanziarie, delegati, agenti e fiduciari. Conseguentemente, il segreto bancario, seppure previsto e tutelato dalla normativa nazionale, non costituisce un limite allo scambio delle informazioni, ex art. 26, paragrafo 5, Modello OCSE. Detto art. 26 sancisce, come regola generale, la cooperazione internazionale in materia fiscale.

Oltre tutto, è bene rammentare che l’art. 117 della Costituzione dispone:

“La podestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

In osservanza delle linee guida del Modello, le varie Convenzioni, pertanto, producono effetti sia sullo Stato della Fonte, sia sullo Stato della Residenza, applicando il concetto di prevalenza della norma più favorevole al contribuente.

Con riferimento alla normativa nazionale, inoltre:

-          “Le disposizioni del presente Testo Unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione” (art. 169 TUIR);

-          “Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia” (art. 175, DPR 600/1973).

A questo punto diventa prioritario il concetto di “residenza”.

Il concetto di “residenza”, come noto, si differenzia da quello di cittadinanza e di nazionalità. La prima esprime la relazione tra una persona e uno Stato; la seconda concerne piuttosto l’appartenenza a un determinato gruppo sociale.

Ritroviamo la definizione di “residenza” nell’art. 4 del Modello. Di regola, i residenti saranno tassati in base al citato “world wide taxation principle”; i non residenti su base territoriale.

Con il termine “residente”, l’articolo 4 stabilisce che si debbano intendere quei soggetti che saranno tassati in relazione al proprio domicilio/residenza/sede amministrativa, in funzione di quanto previsto dalle leggi tributarie vigenti nello Stato di riferimento.

I criteri adottati per stabilire la residenza sono, nell’ordine:

-          l’abitazione permanente;

-          il domicilio (inteso come centro d’affari e di interessi);

-          la dimora abituale;

-          la cittadinanza.

Per quanto concerne l’Italia, l’art. 2 del TUIR distingue la residenza a seconda che si tratti di persone fisiche o di persone giuridiche.

A)     Per le persone fisiche, la residenza è il luogo in cui, per la maggior parte dell’anno solare:

-          sono iscritte alle anagrafi delle popolazioni residenti;

-          hanno nel territorio dello Stato il domicilio (ex art. 43, Codice civile);

-          hanno nel territorio dello Stato la residenza (sempre, ex art. 43, Codice civile).

Tali requisiti non devono coesistere contemporaneamente, essendo sufficiente che se ne verifichi anche soltanto uno.

Per “maggior parte dell’anno solare”, si intende un periodo superiore a 183 (o 184) giorni nell’arco dello stesso anno di 365 (o 366) giorni, calcolati secondo l’anno civile (durata effettiva), anche non continuativi, purché all’interno dello stesso periodo d’imposta.

Da tenere presente che non sono, comunque, considerati iscritti nelle anagrafi:

- i cittadini che si recano all’estero per cause di durata limitata non superiore a 12 mesi;

- i cittadini che si recano all’estero per l’esercizio di occupazioni stagionali.

Per le società e gli enti, il luogo di residenza viene generalmente fatto coincidere con quello in cui vi è la sede amministrativa o legale.

B)     Le persone giuridiche si considerano residenti presso il luogo in cui, per la maggior parte del periodo di imposta (come appena definito), hanno:

-          la sede legale così come indicata nell’atto costitutivo;

-          la sede dell’amministrazione desumibile dalla presenza di uffici amministrativi i cui indirizzi siano riportati nella corrispondenza e nei documenti fiscali;

-          l’oggetto principale della propria attività, come definito dall’art. 73, commi 4 e 5, TUIR: “l’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente è determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o alla statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata”; per “oggetto principale” si intende l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo Statuto.

Di norma, il domicilio di un soggetto andrà a coincidere con quello in cui è ubicata la sua sede di affari, economica e sociale, tenuto conto del fatto che, ovviamente, detto domicilio può anche prescindere dall’effettiva presenza fisica o meno della persona.

Con espresso riguardo ai criteri di prevalenza cui riferirsi, onde determinare la residenza/domicilio, corre l’obbligo di richiamare la recente Cassazione – Sezione Tributaria – N. 6501 del 31 marzo 2015, la quale ha posto l’accento sull’importanza prioritaria che assume la nazione in cui si trova il centro dei propri affari giuridici ed economici, rispetto al fatto che permangano in Italia le relazioni affettive e familiari, le quali ultime assumono – nei confronti dell’elemento prettamente economico – un grado di importanza minore, e non possono costituire indizio definitivo se non corroborate da altri criteri probatori.

Tutto ciò delineato, in particolare, per quello che rileva in questa sede, le regole di precipuo interesse sono quelle che ritroviamo nel Capitolo 5, del Modello OCSE (Methods for elimination of double taxation), art. 23 A (Exemption method) e art. 23 B (Credit method).

Si tratta di due metodi predisposti per risolvere il problema della doppia imposizione. Essi concernono lo Stato di residenza del beneficiario del reddito, posto che sarà compito proprio di detto Stato eliminare la doppia imposizione attraverso i metodi previsti nel Capitolo in esame. Si potrà scegliere, alternativamente, tra:

I)                    Il metodo dell’esenzione del reddito (Exemption method): tale metodo esclude dall’imposizione i redditi di fonte estera; l’esenzione si applica indipendentemente dal fatto che lo Stato della fonte o della residenza tassi effettivamente i redditi o i patrimoni (divieto di doppia imposizione virtuale o potenziale).

Lo Stato della residenza esenta il reddito che può essere assoggettato a imposizione nello Stato della fonte, in forma sia illimitata che limitata, come può avvenire, rispettivamente, nel caso dei redditi derivanti da stabile organizzazione, e dei redditi dei dividendi. Vi sono due metodi di applicazione dell’esenzione: il metodo dell’esenzione piena e il metodo dell’esenzione per progressione. Se le aliquote non sono progressive (come nel caso dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche), non vi sarà alcuna differenza in termini di risultato. L’esenzione progressiva verrà riconosciuta mediante l’adozione dell’aliquota che sarebbe applicata al totale del reddito prodotto su base mondiale, al netto del reddito di fonte straniera, ovverossia, solamente sul reddito di fonte interna.

II)                  Il metodo dell’imputazione del reddito (Credit method), con il quale viene garantita la

deducibilità delle imposte assolte all'estero.

Secondo tale metodo, lo Stato della residenza computa la propria tassazione sulla base del reddito totale (incluso quello estero). Con il metodo del credito pieno, l'imposta assolta all’estero viene semplicemente dedotta dall’imposta totale calcolata sul reddito complessivo nello Stato di residenza. Ovviamente, quindi, in tal caso, più sarà elevata l’aliquota applicata all’estero, minore risulterà la tassazione interna. Come conseguenza di ciò, generalmente, viene utilizzato il metodo del credito ordinario. Tale secondo sistema determina il credito entro il limite dato dall’ammontare d’imposta nazionale che sarebbe stata dovuta relativamente al reddito estero. Tra l’imposta estera effettivamente applicata e quella nazionale calcolata sul reddito estero, viene riconosciuta quella di ammontare inferiore. Anche in tal caso è possibile avere due varianti del metodo del credito ordinario: limitazione assoluta e limitazione per Stato (la maggior parte dei Paesi membri dell’OCSE, applica quest’ultima).

Evidentemente, poi, nei casi in cui, anziché un utile, si verificasse una perdita, analogamente, l’applicazione del metodo per l’eliminazione della doppia imposizione dovrà tenere conto delle regole previste dall’ordinamento interno in merito alla deduzione delle perdite, al fine di evitare che le stesse siano dedotte due volte: nello Stato estero e in quello di residenza.

Quanto all’Italia, si ricorda che il nostro Paese ha adottato il metodo del credito d’imposta, regolato dall’art. 165 del TUIR e applicabile a tutti i soggetti IRPEF e IRES, anche in caso di assenza di Convenzione.

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