Paolo Soro

Dipendente-amministratore, criticità previdenziali

Nell’ordinamento giuridico nazionale non sono contenute peculiari disposizioni che vietino a una società di conferire l’incarico di amministratore a un proprio dipendente: conseguentemente, si dovrebbe ritenere che tale eventualità sia legittimamente invocabile, salvi alcuni casi particolari, come quello in cui la nomina ricada sull’amministratore unico (Cass. n. 24188/2006).

Nell’ordinamento giuridico nazionale non sono contenute peculiari disposizioni che vietino a una società di conferire l’incarico di amministratore a un proprio dipendente: conseguentemente, si dovrebbe ritenere che tale eventualità sia legittimamente invocabile, salvi alcuni casi particolari, come quello in cui la nomina ricada sull’amministratore unico (Cass. n. 24188/2006). Al ricorrere di tale circostanza, si dovrebbe ritenere esclusa la possibilità che tale soggetto sia pure dipendente dell’impresa gestita, in quanto verrebbe a mancare l’effettivo assoggettamento al potere direttivo e disciplinare di altri, che rappresenta, invece, il requisito tipico del vincolo di subordinazione (Cass. n. 13009/2003 e n. 894/1998). Qualora l’incarico di amministratore unico e dipendente siano riuniti nella medesima persona, non è configurabile un valido rapporto di lavoro subordinato, con la conseguente indeducibilità dei relativi costi sostenuti dalla società: l’art. 95 del D.P.R. n. 917/1986 contempla, infatti, la rilevanza – ai fini della determinazione del reddito d’impresa – delle spese di lavoro dipendente e dei compensi degli amministratori, ma non di quelli dell’imprenditore individuale, a cui la predetta giurisprudenza di legittimità assimila la figura dell’amministratore unico (Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Circolare n. 13/2010). Il medesimo principio dovrebbe ritenersi operante anche nel caso in cui la gestione sia affidata a un organo collegiale, e non monocratico, i cui componenti siano tutti dipendenti della medesima impresa amministrata. Fanno ovviamente eccezione le cooperative di produzione e lavoro.
La tematica non risulta ancora espressamente affrontata dall’Agenzia delle Entrate, a differenza della Suprema Corte, che – al di fuori delle predette ipotesi – ritiene ammissibile la nomina ad amministratore non unico di un dipendente della società, purché risulti soddisfatta una condizione: la funzione gestoria è limitata ai soli poteri di ordinaria amministrazione, mentre la parte straordinaria – e, quindi, di direzione, controllo e disciplinare sull’attività del lavoratore subordinato – compete alla collegialità del consiglio di amministrazione (Cass. n. 1490/2000 e n. 12283/1998). È il caso, a esempio, dell’amministratore delegato, oppure del presidente dell’organo di gestione privo di poteri deliberativi, e munito della sola rappresentanza esterna e delle funzioni esecutive per cui, nella veste di dipendente, risponde del proprio operato all’organo collegiale (Cass. n. 7465/2002 e n. 706/1993).
Il predetto orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, non è, tuttavia, condiviso dall’INPS (Circolare n. 179/1989), che – in occasione della richiesta formulata dal dipendente/amministratore, in merito all’erogazione del trattamento pensionistico – nega, invece, la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato in capo al soggetto che rivesta altresì, nell’ambito della medesima impresa, una delle seguenti funzioni gestorie: amministratore unico; amministratore delegato; presidente del consiglio di amministrazione; mero componente dell’organo collegiale, ma detentore anche della maggioranza del capitale sociale della medesima impresa amministrata. È, in ogni caso, ammessa la prova contraria, ovvero che il dipendente è stato assunto per svolgere attività diverse da quelle proprie di amministratore, in base a un atto – formatosi in assenza di conflitto d’interessi (Cass. 7 marzo 1996, n. 1793) – contenente alcune specifiche informazioni: in particolare, la qualifica dirigenziale e il nominativo della persona a cui il lavoratore subordinato è gerarchicamente sottoposto.
Altre volte, lo stesso Istituto è giunto a escludere la possibilità in cui il socio di maggioranza di una società di capitali, pur non risultandone amministratore, rivesta la qualifica di dipendente. Tale forzatura della normativa deve categoricamente essere disattesa, posta la natura giuridica autonoma della società in questione, ben disgiunta dalle singole persone fisiche dei soci. Così, viceversa, non potrà essere laddove trattasi di soci di società personali.

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