Paolo Soro

Smart-working in Italia di dipendenti iscritti all’AIRE

Commento a risposta a interpello N. 458 del 7 luglio 2021

L’Agenzia delle entrate ha evidenziato di recente alcune importanti precisazioni in merito a un tema non sempre di immediata applicazione: il trattamento fiscale delle retribuzioni erogate ai dipendenti iscritti all’AIRE che lavorano in smart-working dall’Italia, causa Covid.

Si tratta, nello specifico, della risposta a interpello N. 458 del 7 luglio 2021.

L’istante è società appartenente a un gruppo internazionale che distacca abitualmente parte del proprio personale italiano presso le consociate cinesi. Considerata la frequenza di tali distacchi e il perdurare degli stessi, taluni di questi dipendenti si sono definitivamente trasferiti in Cina; altri, viceversa, non hanno optato per detta soluzione. Cionondimeno, tutti i dipendenti distaccati si sono iscritti all’AIRE (Associazione Italiani Residenti all’Estero).

In forza di quanto stabilito dalla legge italiana in materia di residenza e dalla norma convenzionale di riferimento nella concreta fattispecie, la società, nella propria veste di sostituto d'imposta, per l'anno in corso ha sospeso le ritenute sui redditi di lavoro dipendente nei confronti dei suddetti soggetti, posto che gli stessi non risultano essere fiscalmente residenti in Italia e prestano il loro lavoro in Cina.

Dopo di che, a causa della straordinarietà della situazione legata all'emergenza sanitaria esplosa in Cina, un gruppo di circa 12 lavoratori è rientrato in Italia a fine gennaio 2020, continuando a svolgere la prestazione lavorativa in smart-working, sempre a beneficio della società distaccataria cinese, fino al rientro in Cina avvenuto in varie date a partire dal mese di luglio 2020.

Di conseguenza, il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa dei dipendenti in questione è stato, eccezionalmente e temporaneamente, l'abitazione dei lavoratori in Italia.

Prima osservazione: la norma stabilisce un periodo minimo (183/184 giorni), ma sempre con riferimento a dipendenti che sono fiscalmente residenti nel Paese. Pertanto, una soggettiva valutazione da parte della società istante di “eccezionalità” e “temporaneità” della situazione, francamente pare inconferente. 

Peraltro, l’attività svolta dai dipendenti è rimasta sostanzialmente invariata, non si sono verificate interruzioni o variazioni contrattuali relativamente alla tipologia di mansioni, alla legal entity cinese beneficiaria delle prestazioni di lavoro, alle linee di riporto degli stessi lavoratori e alla struttura remunerativa dei dipendenti.

Seconda osservazione: anche questa puntualizzazione sembra del tutto inconferente, atteso che la norma convenzionale non prevede delle eccezioni rispetto alla tipologia di attività svolta dal personale dipendente.

Infine, la società rappresenta che, alla luce dell’emergenza sanitaria in corso, in materia di trattati internazionali, l'OCSE ha suggerito ai Paesi aderenti di non considerare le situazioni temporanee determinate da tale "causa di forza maggiore", facendo esclusivo riferimento ai comportamenti che sarebbero stati tenuti in uno scenario di normalità, senza dare rilevanza alle deviazioni dettate dall'emergenza e dai vincoli alla mobilità imposti dai governi.

Terza osservazione: appare fin troppo evidente che, se è in vigore una convenzione contro le doppie imposizioni che stabilisce determinate disposizioni, queste non possono venire meno solo perché il Segretariato dell’OCSE ha esposto taluni consigli di ordine generale, i quali, fintantoché non trovano adeguata ratifica contrattuale, non hanno alcuna rilevanza di carattere normativo.

Tutto ciò premesso, l’istante chiede:

-          Se per i dipendenti che abbiano trascorso in Italia, durante l'anno bisestile 2020, meno di 184 giorni, il compenso relativo ai giorni di lavoro svolti in Italia sia da considerare come reddito prodotto nel territorio dello Stato da soggetti non residenti e, in quanto tale, sia da assoggettare a imposizione in Italia;

-          Se la permanenza in Italia per più di 184 giorni durante il 2020 dei dipendenti della Società istante abbia comportato, in linea di principio, una modifica nel loro status di residenza fiscale;

-          Qualora questi ultimi dipendenti fossero da considerare residenti in Italia, se la base imponibile di lavoro dipendente possa essere determinata ai sensi dell'articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, considerando fittiziamente di fonte estera il reddito derivante da attività svolta in Italia, per cause imputabili all'emergenza sanitaria e definibili di forza maggiore, con relativa spettanza del credito per le imposte assolte all'estero;

-          Il metodo di conteggio dei giorni, al fine di soddisfare il requisito dei "183 giorni nell'arco di 12 mesi" previsto dall'articolo 51, comma 8-bis, del Tuir.

La società rappresenta nell’istanza che, per quanto riguarda gli adempimenti in Cina:

-          I redditi da lavoro dipendente prodotti nel periodo di attività svolta da remoto in Italia sono stati comunque assoggettati a imposizione in Cina tramite dichiarazioni dei redditi mensili per ciascun dipendente oggetto dell'istanza di interpello in esame;

-          Per la normativa cinese, quando i costi dei dipendenti rimpatriati per l'emergenza sono addebitati all'entità cinese e l'attività è svolta a beneficio della medesima, i redditi sono considerati di fonte cinese a prescindere dal luogo fisico in cui tale attività è svolta;

-          La posizione cinese è in linea con le raccomandazioni OCSE citate precedentemente.

Quarta osservazione: la normativa interna cinese è ininfluente rispetto a quella italiana, fatto salvo quanto espressamente indicato nella convenzione tra i due Paesi. D’altronde, tale trattato prevede – more solito – apposite disposizioni al fine di risolvere potenziali situazioni di doppia imposizione e/o di doppia residenza fiscale.

In conclusione, l’istante prospetta le seguenti soluzioni interpretative ai quesiti posti:

-          Per i dipendenti che, per cause del tutto eccezionali legate all'emergenza sanitaria, si siano trovati a soggiornare in Italia per un periodo più o meno lungo, ma inferiore a 184 giorni durante il 2020, che quindi si qualificherebbero in ogni caso non residenti ai sensi dell'articolo 2 del Tuir, il reddito di lavoro dipendente prodotto in modalità smart-working presso l'abitazione/alloggio del dipendente in Italia debba essere considerato come reddito di fonte estera e pertanto esentato da tassazione in Italia ai sensi dell'articolo 23 Tuir;

-          I dipendenti che hanno trascorso nel Paese più di 184 giorni complessivamente nel periodo d'imposta, potenzialmente qualificabili come fiscalmente residenti, considerata l'eccezionalità della situazione dovuta al Covid-19, debbano essere comunque considerati quali soggetti fiscalmente non residenti in Italia e i relativi redditi prodotti in modalità smart-working interamente di fonte estera; quindi esenti da imposizione in Italia;

-          Qualora non fosse condivisa quest'ultima soluzione interpretativa, l'Istante è dell'avviso che al reddito di lavoro prodotto dai dipendenti che hanno trascorso in Italia più di 184 giorni complessivamente nel periodo d'imposta e, conseguentemente, ritenuti residenti, possa trovare applicazione l'articolo 51, comma 8-bis, del Tuir, ovvero determinare la base imponibile in forza alle retribuzioni convenzionali definite annualmente con decreto del Ministro del lavoro e delle Politiche sociali.

Sempre secondo l’istante, infatti:

La presenza obbligata in Italia, dettata dalle circostanze Covid-19, non deve essere presa in considerazione ai fini della determinazione della fonte del reddito e neanche della residenza fiscale, in linea con gli orientamenti internazionali e la semplificazione che ne deriverebbe per le impese multinazionali italiane e i loro dipendenti in un contesto emergenziale di grande difficoltà.

Quinta e ultima osservazione: nel merito, tali considerazioni paiono condivisibili; ma, in questa sede (istanza di interpello), l’Agenzia delle entrate non può che rispondere in base alle normative – pure eventualmente di carattere emergenziale – in vigore; non in forza a potenziali mancati (anche se doverosamente auspicabili) interventi del legislatore. Giova infatti ricordare che l’istituto dell’interpello ordinatorio e/o qualificatorio non consente all’Agenzia di esprimere quei chiarimenti per i quali sono deputati altri strumenti (esempio: le circolari), ma è previsto solamente per indicare ai contribuenti la corretta applicazione di norme di legge di difficile interpretazione.

E, per l’appunto, le risposte fornite vanno in tal senso.

In premessa, l’Agenzia ricorda che dette risposte esulano da valutazioni concernenti lo status di residente o non residente dei lavoratori dipendenti della Società istante, questione che di conseguenza non sarà oggetto di valutazione. Tale status viene “assunto acriticamente così come rappresentato nell'istanza di interpello”.

Con riferimento ai suggerimenti del Segretariato dell’OCSE, l’Agenzia rappresenta che “Le predette indicazioni riguardano unicamente i canoni ermeneutici delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, e non hanno rilevanza al fine di interpretare la normativa interna italiana” (in sostanza, non hanno alcuna forza di legge).

Sul punto, la competente autorità fiscale italiana ha concluso degli Accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell'articolo 15 (lavoro subordinato) delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, con l'Austria, la Francia e la Svizzera, Stati limitrofi rispetto ai quali l'incidenza della mobilità transfrontaliera dei lavoratori è particolarmente significativa. Al di fuori di tale specifico perimetro contrattuale, non possono che doversi applicare le regole contenute nei trattati attualmente in vigore: ovverosia, l’Accordo stipulato tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica Popolare cinese per evitare le doppie imposizioni e per prevenire le evasioni fiscali in materia di imposte sul reddito, firmato a Pechino il 31 ottobre 1986 e ratificato con legge 31 ottobre 1989, n. 376.

Ciò precisato, ai sensi dell'articolo 23, comma 1, lettera c), del Tuir, si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi di lavoro dipendente prestato, da soggetti non residenti, nel territorio dello Stato.

Tale disposizione non trova applicazione qualora il nostro Paese abbia stipulato, con lo Stato di residenza del lavoratore, una convenzione per evitare le doppie imposizioni che riconosca a quest'ultimo Stato la potestà impositiva esclusiva sul reddito di lavoro dipendente prestato in Italia.

Al riguardo, si fa presente che l'articolo 15, paragrafo 1 – Lavoro Subordinato – del citato Accordo, prevede che le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente per «l'attività dipendente» svolta nell'altro Stato contraente, sono imponibili in entrambi gli Stati.

Pertanto, in base al combinato disposto dell'articolo 15 della citata Convenzione e dell'articolo 23 del Tuir, il reddito di lavoro dipendente percepito dai dipendenti della Società istante e residenti in Cina, per l'attività di lavoro svolta in Italia, rilevi fiscalmente anche nel nostro Paese, ai sensi degli articoli 49 e 51, commi da 1 a 8, del Tuir. E, in effetti, il paragrafo 2 dell'articolo 15 prevede che «le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un'attività dipendente svolta nell'altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel detto primo Stato se:

a) il beneficiario soggiorna nell'altro Stato per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno solare considerato; e

b) le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell'altro Stato; e

c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell'altro Stato».

Considerato che nella fattispecie in esame la remunerazione è erogata da un datore di lavoro residente in Italia, non si ritiene soddisfatta la condizione di cui alla citata lettera b) e, dunque, le remunerazioni de quibus risultano imponibili in entrambi gli Stati.

La conseguente doppia imposizione sarà risolta, ai sensi dell'articolo 23, paragrafo 3, della Convenzione, attraverso il riconoscimento di un credito d'imposta da parte della Cina, Stato di residenza dei lavoratori dipendenti.

Con riferimento al secondo quesito, assume innanzitutto rilievo l'articolo 4 del Trattato con la Cina che stabilisce, al paragrafo 2, le cosiddette tie breaker rules per dirimere eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Dette regole fanno prevalere il criterio dell'abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità. Una persona fisica iscritta all'AIRE e rientrata in Italia unicamente a seguito dell'emergenza Covid potrebbe essere considerata fiscalmente residente in Italia secondo le disposizioni interne, in quanto risulterebbe avere il domicilio nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d'imposta. Qualora si verificasse un conflitto di residenza con lo Stato estero, questo dovrebbe essere risolto facendo ricorso ai criteri convenzionali.

Con riguardo al terzo quesito (applicazione delle retribuzioni convenzionali), la disciplina fiscale prevista dal comma 8-bis dell'articolo 51 del Tuir, non può trovare applicazione dal momento che tale disposizione richiede il soggiorno all'estero per più di 183 giorni nell'arco di dodici mesi, da parte del lavoratore residente in Italia. Orbene, nella fattispecie in esame si ravvisa lo svolgimento nel nostro Paese della prestazione lavorativa da parte di soggetti residenti.

Pertanto, non sono soddisfatte le condizioni previste dal citato comma 8-bis ai sensi del quale «In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all'art. 4, comma 1, del D.L. 31 luglio 1987, N. 317, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 ottobre 1987, N. 398».

Considerata tale risposta, perde di qualsiasi valore il quesito volto a confermare la correttezza del metodo di conteggio dei giorni illustrato, al fine di soddisfare il requisito dei "183 giorni nell'arco di 12 mesi" previsto dall'articolo 51, comma 8-bis, del Tuir.

In conclusione, dunque, l’effettivo svolgimento in Italia dell’attività di lavoro, anche se prestata in smart-working a causa del Covid, da dipendenti che sono temporaneamente distaccati all’estero, comporta la regolare effettuazione delle ritenute. Il fatto che tali dipendenti risultino iscritti all’AIRE (ossia, fiscalmente residenti all’estero) implica la tassazione concorrenziale di entrambi i Paesi, in forza a quanto stabilito nella concreta fattispecie dalla norma convenzionale.

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