Paolo Soro

La Cassazione si pronuncia sulla natura del reddito prodotto dalle Stp

La mancanza di una norma volta ad individuare la natura del reddito prodotto dalle Stp rende necessaria un’attività interpretativa che può condurre anche a risultati tra loro non conformi, e che si riflette in un “affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle entrate”.

Nell’ambito di questo quadro così incerto si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione n. 7407, depositata ieri, 17 marzo, con la quale è stata confermata l’applicabilità della ritenuta a titolo d’acconto sui compensi corrisposti ad una Stp, non essendo stata fornita prova dell’attività svolta in maniera imprenditoriale.

Una conclusione, questa, che diverge totalmente dalle precedenti interpretazioni dell’Agenzia delle entrate e che richiede un’analisi delle singole fattispecie che rende ancora più complessa e di difficile applicazione questa particolare disciplina.

Il caso riguarda uno studio legale, costituito come S.r.l. tra professionisti, che aveva emesso una fattura a fronte della quale la società cliente non aveva pagato l’intero importo ma aveva trattenuto la somma quantificata a titolo di ritenuta d’acconto.

Lo studio legale, pertanto, chiedeva e otteneva il decreto ingiuntivo, richiamando, tra l’altro, le circolari dell’Agenzia delle entrate che qualificavano gli importi fatturati come reddito d’impresa e non come redditi di lavoro autonomo.

La società cliente proponeva però opposizione al decreto ingiuntivo, risultando vittoriosa.

La problematica è giunta quindi dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha posto l’accento sulla grave lacuna normativa che caratterizza la disciplina delle società tra professionisti: si rende pertanto necessario interpretare la norma, con esiti che possono essere diametralmente opposti, a seconda che si intenda privilegiare il presupposto soggettivo (ovverosia la natura del soggetto che produce il reddito, che, come noto, è una società commerciale) o quello oggettivo (vale a dire con riferimento ai caratteri dell’attività svolta, che resta un’attività professionale).

La stessa Agenzia delle entrate ha mostrato non pochi problemi interpretativi: la Corte di Cassazione, citando la dottrina, parla infatti di “un affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni”.

La Corte di Cassazione propone dunque, nella citata sentenza, un lungo esame delle prassi applicative dell’Amministrazione finanziaria, risalendo fino alla risoluzione 118/E/2003 con la quale fu qualificato come reddito di lavoro autonomo quello prodotto dalle società tra avvocati di cui agli articoli 16 e ss. D.Lgs. 96/2001; a conclusioni diametralmente opposte era invece giunta la stessa Agenzia delle entrate con la successiva risoluzione 56/E/2006, che aveva qualificato come reddito d’impresa quello prodotto dalle società di ingegneria.

Con riferimento, infine, alle Stp, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto di dover valorizzare la veste giuridica della società, ritenendo invece che la tipologia di attività svolta non assumesse alcun rilievo.

Queste conclusioni trovarono conferma non solo nel parere del 18.10.2014 reso su sollecitazione dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, ma anche nell’ambito della risoluzione 35/E/2018, con riferimento alle società tra avvocati costituite ai sensi della L. 247/2012, nonché in altri numerosi documenti di prassi citati nella sentenza in esame.

Alla luce dell’analisi condotta la Corte di Cassazione ricorda quindi che, per quanto le circolari dell’Agenzia delle entrate “non costituiscano fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da essere alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate”, le loro risultanze costituiscono un dato che non può essere ignorato.

Tuttavia, la Corte di Cassazione giunge ad una diversa conclusione, ritendendo di dover far discendere la natura del reddito prodotto dalla concreta configurazione della società, e, in particolare, dalla presenza o meno di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale.

Mancando una disciplina fiscale è infatti necessario far ricorso a quella civilistica: in tal senso assume dunque rilievo la previsione dell’articolo 2238 cod. civ., in forza del quale “Se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II [dedicato al lavoro d’impresa]”.

Alla luce della richiamata disposizione, dunque, la Corte di Cassazione precisa quanto segue: “perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista individuale, connotata dal carattere della personalità”.

Affinché possa essere esclusa l’applicazione della ritenuta d’acconto, dunque, è necessario verificare che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, ovvero che il reddito sia frutto non solo del lavoro del professionista, ma dell’intera struttura imprenditoriale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha dunque ritenuto applicabile la ritenuta d’acconto, non essendo stata dimostrata la sussistenza di un’attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale.

Fonte: Euroconference News

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