Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
La prima considerazione è legata all’effettiva residenza fiscale del percipiente. Evidentemente, la situazione cambia radicalmente laddove si abbia a che fare con chi risulta essere residente fiscalmente in Italia, rispetto a coloro che, viceversa, hanno acquisito – previa iscrizione all’AIRE – la residenza fiscale nel Paese presso il quale svolgono la loro prestazione lavorativa. Andremo ad analizzare solamente la prima ipotesi, posto che, nella seconda, non pare sussistano problemi di sorta: i redditi prodotti all’estero da residenti esteri, certamente, non possono avere nulla a che fare col Fisco “tricolore”. Semmai, i problemi (non solo tributari, ma anche previdenziali) si pongono nel caso in cui un cittadino italiano, fiscalmente residente all’estero, svolga attività di lavoro subordinato in Italia. Ma trattasi di fattispecie che esula dal tema odierno.
Riguardo alla prima ipotesi, come noto, se il documento ufficiale che attesta l’iscrizione all’AIRE è datato entro il 29 giugno, il soggetto dovrà essere considerato residente all’estero per tutto l’anno. In caso contrario, lo stesso lavoratore sarà fiscalmente residente in Italia per l’intero 2019. E qui, già, abbiamo da rappresentare una prima anomalia: a differenza di quanto previsto in Italia, in molti Paesi, la residenza fiscale (e i correlativi obblighi che ne derivano) viene considerata con decorrenza effettiva dal giorno esatto in cui la stessa risulta acquisita.
Ciò significa che potremmo avere, nel corso dell’anno, un periodo in cui il lavoratore ha sostanzialmente doppia residenza fiscale; ovvero, periodi in cui il medesimo soggetto non può essere considerato residente né in Italia, né nello Stato estero di riferimento.
Il TUIR (c. 2, art. 2) detta le condizioni che comportano lo status di residente:
“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d'imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile”.
Le anzidette condizioni sono alternative tra loro: è sufficiente che ricorra anche una sola di esse, perché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia (e quindi debba dichiarare in patria tutti i redditi posseduti, indipendentemente dal luogo nel quale sono stati prodotti: c. d. World Principle Taxation). Per contro, non possiamo sottacere il fatto che l’Agenzia delle entrate non sarà comunque inibita dall’accertare la sostanziale residenza fiscale italiana (con tutto quello che ciò comporterebbe) in base a dati di fatto che possano comunque essere tali da inficiare i requisiti “formali” indicati dalla disposizione sopra richiamata.
Giova, inoltre, ricordare che, ai sensi del successivo comma 2-bis:
“Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale”. Ossia, i Paesi in cui vige un “sistema fiscale privilegiato” (ex “black-list”).
In base alla regola generale, dunque, tutti i cittadini italiani che lavorano all’estero e che non sono iscritti all’A.I.R.E. (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) sono fiscalmente residenti in Italia e devono ogni anno presentare la dichiarazione e pagare le imposte sui redditi ovunque prodotti. A scongiurare una doppia tassazione, interviene – in prima battuta – l’art. 165, comma 1, del TUIR, il quale stabilisce che:
“Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all'estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall'imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d'imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all'estero e il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d'imposta ammesse in diminuzione”.
A tal riguardo, l’Agenzia delle entrate ha precisato che le imposte estere si considerano pagate a titolo definitivo quando esse non sono ripetibili o è stata presentata la dichiarazione dei redditi all’estero o vi è un’apposita certificazione di definitività dell’imposta, rilasciata dalle Autorità estere.
Al di là di questa disposizione domestica, peraltro, è evidente che occorrerà verificare se esiste e cosa prevede l’eventuale Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e il Paese estero interessato.
Incominciamo subito col dire che, oramai, è assai improbabile trovarsi di fronte a fattispecie concernenti Stati privi di trattato. Inoltre, tali trattati rispecchiamo di regola il modello convenzionale OCSE, il quale definisce – in genere, all’art. 15 – le regole afferenti alla tassazione del lavoro dipendente.
La normativa prevede che gli stipendi che un cittadino italiano riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto in Italia, a meno che tale attività non venga svolta nello Stato estero. Se l’attività è quivi svolta, le remunerazioni percepite a tale titolo sono imponibili in questo secondo Stato.
Attenzione a non farsi trarre in inganno dalla suddetta regola: l’avverbio “soltanto” è indicato esclusivamente nel primo caso (tassazione in Italia). Ciò sta a significare che, nella seconda ipotesi (tassazione all’estero), in realtà permane – sempre a giudizio dell’Agenzia delle entrate – una tassazione di tipo concorrente fra i due Stati, i quali conservano entrambi il diritto di tassare il contribuente. Dopo di che, detto contribuente potrà solo agire in ossequio alle regole previste in apposito successivo articolo convenzionale – generalmente, l’art. 24 – contenente le disposizioni per eliminare le fattispecie di doppia imposizione.
Il secondo paragrafo del citato art. 15, poi, dispone altresì che le remunerazioni ricevute da un residente italiano quale corrispettivo di un’attività dipendente svolta all’estero sono comunque imponibili in Italia, se:
a) il beneficiario soggiorna all’estero per un periodo o periodi che non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso dell'anno fiscale considerato, e
b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente nello Stato estero, e
c) l'onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nello Stato estero.
In questo caso, quindi, devono sussistere tutte e tre le condizioni.
Infine, l’articolo disciplina alcune eccezioni: lavoro prestato a bordo di navi o aeromobili in traffico internazionale e (a seconda della posizione geografica dei due Paesi interessati) lavoro svolto da soggetti transfrontalieri.
Prima di andare oltre, pare appena il caso di ricordare che:
I) La normativa convenzionale prevale nei confronti della legge nazionale
Art. 117, Costituzione:
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e dagli obblighi internazionali.
Art. 75 DPR 600/1973
Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia
II) Esiste poi una clausola di salvaguardia all’interno del nostro ordinamento tributario
Art. 169 TUIR
Le disposizioni del presente testo unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione
Orbene, una volta assodato che il cittadino italiano, ivi fiscalmente residente, debba dichiarare in patria i redditi prodotti all’estero, fermo restando il credito d’imposta per quanto già versato a titolo definitivo nel Paese straniero (e fino a concorrenza dello stesso: non si potrà in ogni caso “andare a credito”), occorre accertarsi di quali siano gli importi che bisogna effettivamente indicare nel modello unico a tale titolo.
Con specifico riguardo al reddito di lavoro dipendente svolto all’estero, interviene l’art. 51, comma 8-bis, del TUIR, precisando che:
In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale.
Innanzitutto, precisiamo che con “oggetto esclusivo del rapporto”, s’intende il fatto che il dipendente lavori regolarmente all’estero e non vi sia comandato (fosse anche per lunghi periodi), a titolo di prestazione ulteriore o accessoria rispetto ad altra previamente contrattualizzata in Italia.
Ciò chiarito, le retribuzioni convenzionali si applicano al verificarsi delle seguenti condizioni:
- Il lavoratore dipendente è fiscalmente residente in Italia;
- Il lavoro dipendente svolto all’estero in via continuativa è equiparabile a uno dei profili individuati nel citato decreto ministeriale sulle retribuzioni convenzionali (l’Agenzia, nella circolare 20/E del 13 maggio del 2011, ha evidenziato che: “la mancata previsione nel decreto ministeriale del settore economico nel quale viene svolta l’attività da parte del dipendente costituisce motivo ostativo all’applicazione del particolare regime”);
- Il lavoro è l’oggetto esclusivo del rapporto;
- Il lavoro è stato svolto all’estero per un periodo superiore a 183 giorni anche non consecutivi, nell’arco di dodici mesi (dunque, non necessariamente all’interno del medesimo anno solare).
La Circolare 207/2000 dell’Agenzia delle entrate ha sul punto chiarito che, per quanto concerne il computo dei giorni di effettiva permanenza del lavoratore all’estero, il periodo da considerare non necessariamente deve risultare continuativo: è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi. Appare opportuno precisare che il Legislatore, con l’espressione “nell’arco di dodici mesi”, non ha inteso fare riferimento al periodo d’imposta, ma alla permanenza del lavoratore all’estero stabilita nello specifico contratto di lavoro, che può anche prevedere un periodo a cavallo di due anni solari. Per l’effettivo conteggio, poi, dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero, rilevano, in ogni caso, nel computo del limite dei 183 giorni, i periodi di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi.
È da rilevare che, nella stragrande maggioranza dei casi, le retribuzioni convenzionali sono più convenienti per il dipendente, posto che prevedono importi inferiori rispetto alle remunerazioni realmente percepite. Ciò anche perché, dette retribuzioni sono da intendersi inclusive di tutti quegli eventuali extra (finge benefit et similia) che, magari, il soggetto ha percepito in aggiunta alla sua ordinaria retribuzione e che, dunque, avrebbe l’onere di includere fra i redditi da dichiarare, nel caso in cui non potesse fare riferimento alle citate retribuzioni convenzionali. In sostanza, una volta individuata la retribuzione mensile corrispondente al livello di riferimento, sarà sufficiente moltiplicare per 12 tale importo (detta sommatoria annuale, infatti, è già riparametrata al fine di ricomprendere anche eventuali mensilità aggiuntive; esempio: la tredicesima).
Peraltro, esistono casi in cui le retribuzioni convenzionali possono risultare più elevate (quindi, non convenienti da un punto di vista reddituale) per il lavoratore. Ebbene, sul punto, occorre evidenziare che, stando al tenore letterale della norma (il reddito di lavoro dipendente… è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali), parrebbe comunque obbligatorio indicare sempre – ricorrendone i sopra menzionati presupposti – l’importo delle retribuzioni convenzionali. La normativa, infatti, non ammette eccezioni: non si potrà optare per la tassazione ordinaria (reddito effettivamente percepito) nel caso in cui si presti lavoro all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto.
Cionondimeno, è fuor di dubbio che l’anzidetta disposizione rappresenti una norma “agevolativa” che consente, al verificarsi di determinate condizioni, di tassare in luogo del reddito di lavoro subordinato effettivamente percepito le c. d. “retribuzioni convenzionali”, in quanto generalmente inferiori al reddito effettivamente percepito. Dello stesso avviso è risultata essere la CTP di Macerata (sentenza 67/2/15), la quale, conformemente alla ratio legis, ha accolto l’eccezione di illegittimità dell’articolo 51 del TUIR, ritenendo che l’introduzione del comma 8-bis mirava evidentemente a disciplinare in senso favorevole al contribuente; pertanto, non è possibile invece applicarlo nei casi in cui il contribuente ne risulti penalizzato.
A parere di chi scrive, questa interpretazione risulta senz’altro maggiormente corretta (oltre che di sicuro preferibile). Ma, il consiglio è quello di giustificare un eventuale simile modus operandi, col fatto che il particolare inquadramento del lavoratore all’estero, in realtà, non trova esatta corrispondenza tra quelli indicati nel decreto ministeriale per l’anno di interesse. Di conseguenza, nello specifico, risulta comunque inibito l’uso delle retribuzioni convenzionali.
Un ultimo dubbio attiene, poi, agli oneri contributivi trattenuti dal datore di lavoro estero sugli stipendi erogati.
Il contribuente fiscalmente residente in Italia che presta la propria attività lavorativa all’estero per conto di un datore di lavoro estero deve dichiarare quanto percepito al netto dei contributi previdenziali obbligatori versati nello Stato estero. Questo, è quanto affermato dall’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 17/E del 24.04.2015, paragrafo 4.7, in risposta alle questioni interpretative prospettatele in materia di IRPEF. E ciò vale anche nel caso di contributi facoltativi:
“Tenuto conto che il legislatore ha fissato la disciplina dei contributi distinguendo soltanto i contributi obbligatori versati in ottemperanza a una disposizione di legge da quelli che, invece, tali non sono, si deve ritenere che [ai fini della loro deducibilità] sia irrilevante la circostanza che detti contributi, obbligatori o facoltativi, siano versati in Italia, sempreché le somme e i valori cui i contributi si riferiscono siano assoggettate a tassazione in Italia”.
Quindi, nella pratica occorrerà:
a) tassare la retribuzione “lorda” prodotta all’estero (su cui determinare il credito spettante per le imposte estere: quadro CR);
b) computare in detrazione i contributi: quadro RP.
Fin qui, niente di particolare. Ma cosa succede se applico le retribuzioni convenzionali? È possibile comunque portarsi in detrazione i contributi pagati nel Paese estero?
A nostro avviso, la risposta è sicuramente affermativa.
L’Agenzia – come appena sopra ricordato – ha espressamente specificato che l’unica condizione da soddisfare al fine di poter scomputare i contributi versati, è che: “le somme e i valori cui i contributi si riferiscono siano assoggettate a tassazione in Italia”. Dopo di che, il fatto che la specifica normativa tributaria interna preveda di indicare detti compensi in base a un importo convenzionale stabilito dal ministero, piuttosto che in funzione del quantum concretamente percepito, non inficia certo la circostanza che trattasi di somme assoggettate a regolare tassazione in Italia, a fronte delle quali sono stati pagati dei contributi.
Prima di chiudere, segnaliamo un particolare caso di lavoro dipendente svolto all’estero che potrebbe facilmente risultare oggetto di errata interpretazione. Intendiamo riferirci alle prestazioni (anche queste, sempre più frequenti) di quei volontari che prestano lavoro all’estero, per le diverse organizzazioni umanitarie internazionali.
In tali rapporti, appare, in generale, difficile delimitare i contorni al fine di tipizzare un inquadramento concernente il lavoro subordinato, piuttosto che parasubordinato o addirittura autonomo, in tutto e per tutto. Sul punto, l’Agenzia delle entrate (circolare 15/E del 01/02/2002), indipendentemente dal contratto di lavoro sottostante, ha avuto modo di precisare che dette remunerazioni debbono essere determinate in modo convenzionale e, quel che più conta, essere assimilate ai redditi di lavoro autonomo, laddove per l’appunto trattasi di lavoratori considerati cooperanti ai sensi dell’art. 32, legge 49/1987.
La ONG-sostituto di imposta, allora, rilascerà la certificazione dei compensi, indicando gli importi convenzionalmente determinati e le ritenute effettivamente operate, oltre a specificare che il cooperante (contrariamente a quello che presumibilmente pensa il diretto interessato, il quale in genere ritiene di essere un ordinario lavoratore dipendente), dovrà compilare obbligatoriamente il modello unico redditi PF – quadro RE/lavoro autonomo – anche se in possesso di ordinaria CU, in quanto il 730 non può essere utilizzato per dichiarare i redditi dei cooperanti internazionali.