Paolo Soro

Interessi senza esenzione nelle costruzioni societarie fittizie

La Corte UE si è espressa in relazione ai benefici fiscali previsti dalla direttiva 2003/49-CE, ribadendo il principio generale base del diritto comunitario, in forza del quale, i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto comunitario.

La vicenda

Il giudicato della Corte di Giustizia europea, pubblicato alla fine dello scorso febbraio, riguarda le cause riunite C‑115/16, C‑118/16, C‑119/16 e C‑299/16, e trae origine da una contestazione del Ministero delle imposte danese nei confronti delle società: N Luxembourg 1 (subentrata negli obblighi di una società danese), X Denmark A/S, C Denmark I e Z Denmark ApS, in merito all’obbligo, incombente alle società medesime, di applicare un’imposta trattenuta alla fonte sugli interessi corrisposti a società non-residenti, non considerate dall’Amministrazione finanziaria quali beneficiari effettivi degli interessi stessi, con conseguente esclusione, nei loro confronti, dell’esenzione dalla ritenuta previsto dalla direttiva 2003/49.

Dalla decisione di rinvio emerge, in sostanza, che cinque fondi d’investimento, di cui nessuno è una società residente in uno Stato membro ovvero in uno Stato con cui il Regno di Danimarca ha concluso una convenzione contro le doppie imposizioni, costituivano, nel 2005, un gruppo composto da varie società ai fini dell’acquisizione della T Danmark, importante prestatore di servizi danese.

Come esposto, i fondi d’investimento hanno creato società in Lussemburgo, segnatamente la A Luxembourg Holding, nonché società in Danimarca, tra cui la N Danmark 1. L’acquisizione della T Danmark veniva finanziata, in particolare, mediante finanziamenti concessi dai fondi d’investimento alla N Danmark 1, nonché mediante aumenti di capitale di quest’ultima società. Nel corso del 2009, la N Danmark 1 si fondeva con un’altra società danese, la quale veniva sciolta nel 2010 in occasione di una fusione transfrontaliera con la C Luxembourg, la quale avrebbe poi cambiato denominazione e sarebbe stata liquidata, con cessione dei crediti in questione alla N Luxembourg 1, subentrando quindi nel procedimento principale alla N Danmark 1.

Una delle società danesi creata dai fondi d’investimento, la N Danmark 5, acquisiva la T Danmark.

Nella primavera del 2006, la N Danmark 5 cedeva il proprio pacchetto azionario nella T Danmark alla C Luxembourg, che è così divenuta la società madre della T Danmark.

In data 27 aprile 2006, i titoli di credito relativi ai finanziamenti concessi dai fondi d’investimento venivano ceduti da questi ultimi alla A Luxembourg Holding, che li ritrasferiva in pari data alla C Luxembourg, società madre della T Danmark.

A decorrere da tale data la C Luxembourg si trovava in tal modo debitrice della A Luxembourg Holding per un importo pari a quello dovuto dalla N Danmark 1 alla C Luxembourg (il debito della N Danmark veniva remunerato al tasso del 10%, mentre quello della C Luxembourg e della A Luxembourg era pari al 9,97%).

Il 9 luglio 2008, il rendimento dei finanziamenti conclusi tra la C Luxembourg e la A Luxembourg Holding passava al 10%. Per contro, il rendimento dei finanziamenti conclusi tra la A Luxembourg Holding e i fondi d’investimento veniva mantenuto al 9,97%.

Nel 2006 la C Luxembourg sopportava oneri per «altri costi esterni» pari a 8.701 EUR, di cui 7.810 EUR per retribuzioni, oltre a oneri per «altri costi operativi» pari a 209.349 EUR.

Nello stesso anno 2006, la A Luxembourg Holding sopportava oneri per «altri costi esterni» pari a 3.337 EUR, di cui 2.996 EUR per retribuzioni, oltre a oneri per «altri costi operativi» pari a 127.031 EUR.

A parere del giudice del rinvio, dai rendiconti annuali della C Luxembourg relativi agli esercizi 2007 e 2008 emerge che detta società ha impiegato, in tali esercizi, mediamente due persone a tempo parziale. Quanto ai rendiconti annuali della A Luxembourg Holding relativi al medesimo periodo, emerge che la società medesima ha impiegato, negli stessi esercizi, mediamente una persona a tempo parziale.

Oltre al possesso di partecipazioni nella N Danmark 1, l’attività della C Luxembourg si sarebbe limitata alla detenzione di crediti costituiti dalla società medesima.

La C Luxembourg e la A Luxembourg Holding sono entrambe domiciliate presso lo stesso recapito, il quale è utilizzato anche dalle società direttamente collegate a uno dei fondi di investimento.

Il giudice del rinvio fa presente che, nel 2011, l’Amministrazione danese ha emesso un avviso di accertamento per interessi relativi agli esercizi 2006, 2007 e 2008, per un importo complessivo di circa 124 milioni di euro, ritenendo che la C Luxembourg e la A Luxembourg Holding non fossero i beneficiari effettivi degli interessi, bensì agissero quali mere società interposte, e che, tramite queste due società lussemburghesi, gli interessi venissero trasferiti dalla parte danese del gruppo ai fondi d’investimento extra-UE. Pertanto, la ricorrente del procedimento principale era soggetta all’obbligo di ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi versati e contabilizzati, nonché responsabile del relativo versamento.

L’avviso di accertamento veniva contestato dalla ricorrente principale dinanzi ai giudici danesi.

Dalla decisione di rinvio risulta, inoltre, che il gruppo X è un gruppo mondiale d’imprese di cui la ricorrente del procedimento principale fa parte. Nel corso del 2005, tale gruppo veniva acquisito da fondi d’investimento che detta ricorrente aveva costituito nello stesso anno.

Tali fondi sono azionisti diretti della società capogruppo, vale a dire la X SCA, SICAR, con sede in Lussemburgo, ove quest’ultima è appunto gestita quale società in accomandita per azioni e ha lo status di società d’investimento di capitali a rischio. Ebbene, l’Amministrazione finanziaria danese ritiene che la X SCA, SICAR, costituisce, per la legge danese, un’entità trasparente.

A parere del giudice del rinvio, il portafoglio della X SCA, SICAR era costituito da una partecipazione del 100% nel capitale della X Sweden Holding AB e di un finanziamento concesso alla società medesima. Oltre a tale partecipazione e a tale finanziamento, la X SCA, SICAR non avrebbe esercitato alcuna attività.

L’unica attività della X Sweden Holding consiste nell’essere società holding della X Sweden, con sede in Svezia, a sua volta società madre della X Denmark, ricorrente nel procedimento principale.

In data 27 dicembre 2006, la X Sweden Holding otteneva dalla propria società madre, X SCA, SICAR, il finanziamento menzionato al punto precedente, dell’importo di 498.500.000 EUR. Nel calcolo del proprio reddito imponibile, la X Sweden Holding portava in deduzione gli interessi versati alla X, SCA, SICAR.

La X Sweden è controllata dalla X Sweden Holding al 97,5%, e al 2,5% dalla direzione del gruppo X. Nel corso del periodo oggetto del procedimento principale, la X Sweden era diretta dallo stesso consiglio di amministrazione della X Sweden Holding e non possedeva altre partecipazioni societarie se non nella X Denmark.

La Commissione tributaria danese ha, inoltre, rilevato che:

“Sino alla ristrutturazione attuata alla fine del 2004 / inizi del 2005, la società ultima nella parte danese del gruppo, C Danmark II, era detenuta direttamente dalla C Cayman Islands.

La ristrutturazione ha prodotto l’effetto di inserire tra la C Cayman Islands e la C Danmark II, tre società di nuova costituzione e la C Cayman Islands è successivamente divenuta detentrice di una società holding svedese la quale, a sua volta, deteneva un’altra società svedese, detentrice della C Danmark I, divenuta società madre ultima della parte danese del gruppo. La struttura del gruppo è stata realizzata, in particolare, mediante una serie di vendite infragruppo, nell’ambito delle quali due finanziamenti, rispettivamente pari a 75 milioni di EUR e 825 milioni di EUR, venivano concessi dalla C Cayman Islands alla C Sverige I, nonché due finanziamenti, rispettivamente pari a 75 milioni di EUR e 825 milioni di EUR venivano concessi dalla C Sverige II alla C Danmark I.

Il titolo all’ordine di 75 milioni di EUR tra la C Cayman Islands e la C Sverige I veniva costituito a condizioni assolutamente identiche a quelle del titolo all’ordine di 75 milioni di EUR tra la C Sverige II e la C Danmark I, al pari di quanto avvenuto per i titoli all’ordine di 825 milioni di EUR.

Per effetto della ristrutturazione realizzata e del rapporto di credito creato in tale contesto e che trova espressione nelle operazioni concluse tra le parti aventi interessi comuni, la C Sverige II trasferiva alla C Sverige I, avvalendosi della disciplina svedese sui trasferimenti infragruppo, gli interessi percepiti dalla C Danmark I, mentre la C Sverige I ritrasferiva i fondi alla C Cayman Islands a titolo di oneri finanziari.

Considerato che in Svezia, in base alla normativa fiscale nazionale allora in vigore, non vi era alcuna tassazione dei redditi netti imponibili, i versamenti di interessi dovuti dalla C Danmark I venivano quindi trasferiti integralmente alla C Cayman Islands tramite le società svedesi.

Nessuna delle società create nell’ambito della ristrutturazione esercitava altra attività se non attività di holding e, per tale motivo, i loro prevedibili introiti erano costituiti unicamente da quelli attinenti a tale loro attività. Nella creazione dei rapporti di credito connessi alla ristrutturazione ciò doveva necessariamente presupporre, laddove le società debitrici fossero in grado di assolvere i propri obblighi, che le società stesse ottenessero fondi da altre società del gruppo, quale condizione preliminare.

La C Sverige II veniva, quindi, considerata quale società interposta munita di poteri dispositivi sulle somme percepite talmente ridotti, da non poter essere ritenuta quale beneficiaria effettiva degli interessi percepiti dalla C Danmark I, né sulla base della convenzione fiscale tra i Paesi nordici, né in virtù della direttiva 2003/49. È irrilevante, a tal riguardo, che i trasferimenti tra le società svedesi abbiano assunto la forma di trasferimenti infragruppo e non di versamento di interessi”.

Ciò premesso, la Corte regionale dell’Est (Danimarca) ha deciso di sospendere il procedimento e di adire la Corte UE, sottoponendo alla stessa le questioni pregiudiziali come successivamente evidenziate.

La direttiva 2003/49-CE

Preliminarmente, gli euro-giudici ricordano che l’articolo 1 della direttiva 2003/49 dispone che:

“I pagamenti di interessi o di canoni provenienti da uno Stato membro sono esentati da ogni imposta applicata in tale Stato su detti pagamenti, sia tramite ritenuta alla fonte sia previo accertamento fiscale, a condizione che il beneficiario effettivo degli interessi o dei canoni sia una società di un altro Stato membro o una stabile organizzazione situata in un altro Stato membro, di una società di uno Stato membro.

Una società di uno Stato membro è considerata beneficiario effettivo di interessi o canoni soltanto se riceve tali pagamenti in qualità di beneficiaria finale e non di intermediaria, quale agente, delegato o fiduciario di un’altra persona.

Il presente articolo si applica soltanto se la società che è il pagatore, o la società la cui stabile organizzazione è considerata pagatore, di interessi o canoni, è una società consociata della società che è il beneficiario effettivo, o la cui stabile organizzazione è considerata beneficiario effettivo di tali interessi o canoni.

Lo Stato d’origine può esigere che il soddisfacimento dei requisiti previsti nel presente articolo sia comprovato da un certificato al momento del pagamento di interessi o di canoni. Se il soddisfacimento dei requisiti stabiliti dal presente articolo non è stato comprovato al momento del pagamento, lo Stato membro ha la facoltà di esigere una ritenuta alla fonte.

Lo Stato d’origine può subordinare l’esenzione a norma della presente direttiva all’emanazione di una decisione con cui l’esenzione è concessa attualmente sulla scorta di un certificato che attesta il soddisfacimento dei requisiti previsti nel presente articolo”.

Il successivo articolo 5, intitolato «Frodi e abusi», poi, stabilisce che:

“La presente direttiva non osta all’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per impedire frodi o abusi. Gli Stati membri, nel caso di transazioni aventi come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali l’evasione o l’elusione fiscali, o gli abusi, possono revocare i benefici della presente direttiva o rifiutarne l’applicazione”.

Le questioni pregiudiziali

Sono sostanzialmente tre le questioni pregiudiziali sulle quali la Corte è chiamata a pronunciarsi.

Viene, innanzitutto, chiesto di precisare che cosa si deve intendere – a norma della direttiva in parola – con la nozione di “beneficiario effettivo”, e se il diritto dell’Unione prevede una disposizione atta a consentire, da parte di uno Stato membro, la possibilità di negare, a fronte della realizzazione di un abuso, il beneficio dell’esenzione dalla tassazione (ex articolo 1, paragrafo 1, della stessa direttiva 2003/49), nei confronti di una società che ha corrisposto interessi a un’altra entità stabilita in un secondo Paese membro.

Un secondo quesito concerne l’individuazione di quegli eventuali elementi che costituiscono il possibile abuso e, a tal proposito, quali siano i relativi mezzi di prova, nonché a carico di quale parte sia posto detto onus probandi, in osservanza del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea).

Infine, un’ulteriore domanda (sempre sollevata laddove un Paese membro possa negare i benefici dell’esenzione fiscale indicata nel primo quesito), riguarda l’interpretazione delle disposizioni che prevedono la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali, al fine di permettere al giudice del rinvio di accertare se la normativa danese violi tali precetti di matrice comunitaria.

La decisione della Corte

Quanto alla prima pregiudiziale, la Corte rileva previamente che la direttiva ha lo scopo di eliminare le doppie imposizioni per quanto riguarda i pagamenti d’interessi e di canoni, effettuati tra società consociate di Stati membri diversi, stabilendo che tali pagamenti siano assoggettati una sola volta a imposizione in un unico Stato membro, laddove detti redditi siano concretamente percepiti esclusivamente dal “beneficiario effettivo”. La nozione di “beneficiario degli interessi”, ai sensi della direttiva in argomento, dev’essere quindi interpretata nel senso che designa un’entità che benefici realmente degli interessi corrispostile.

Il successivo articolo 1, paragrafo 4, avvalora tale riferimento alla realtà economica, precisando che una società di uno Stato membro è considerata quale beneficiario di interessi o di canoni, unicamente nel caso in cui li percepisca per conto proprio e non quale rappresentante, a esempio quale amministratore fiduciario o firmatario autorizzato, di un altro soggetto.

Pertanto, la nozione di “beneficiario effettivo” esclude le società interposte e dev’essere intesa, non in un’accezione restrittiva, bensì nel senso di evitare le doppie imposizioni, nonché di prevenire la frode e l’evasione fiscale. E, d’altronde, anche le convenzioni contro le doppie imposizioni in vigore tra le nazioni interessate nella fattispecie per cui è causa, in ottemperanza a quanto indicato nel modello convenzionale OCSE, contengono tutte il termine “beneficiario effettivo” in tale accezione.

La Corte precisa ancora che, nel caso in cui siano interessate più di due società, occorrerà andare a verificare che la società finale, effettiva beneficiaria, sia comunque localizzata in un Paese membro, ai fini dell’applicazione dell’esenzione fiscale in discorso.

Con riferimento, poi, alla seconda parte della prima pregiudiziale sottoposta alla Corte, la stessa ricorda che vige il principio generale di diritto secondo cui i singoli non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente delle norme unionali. L’applicazione di tali norme non può essere estesa sino a comprendere pratiche abusive, ossia operazioni effettuate non nell’ambito di normali operazioni commerciali, ma unicamente allo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto dell’Unione.

Da tale principio discende che uno Stato membro deve negare il beneficio di quelle disposizioni di fonte comunitaria, laddove queste vengano invocate, non al fine di realizzare le finalità delle disposizioni medesime, bensì al fine di godere di un vantaggio derivante dal diritto dell’Unione, sebbene le condizioni per poterne godere siano rispettate solo formalmente. Il principio del divieto dell’abuso trova applicazione in svariate materie, quali: la libera circolazione delle merci, la libera prestazione di servizi, gli appalti pubblici di servizi, la libertà di stabilimento, il diritto societario, la previdenza sociale, i trasporti, la politica sociale, le misure restrittive e l’imposta sul valore aggiunto.

Ne consegue che il principio generale del divieto di pratiche abusive osta a che un soggetto si avvalga di norme del diritto dell’Unione che concedano vantaggi, in modo non coerente con le finalità previste dalle norme medesime. Tale principio può sempre essere opposto dall’Amministrazione locale al fine di negare gli eventuali benefici fiscali richiesti dai soggetti passivi che intendano approfittare di vantaggi indebiti eventualmente ottenibili a seguito dell’ordinaria applicazione delle norme del TFUE.

Orbene, nel caso in discussione, autorizzare la realizzazione di costruzioni finanziarie finalizzate unicamente al conseguimento dei vantaggi fiscali risultanti dalla direttiva 2003/49, non sarebbe coerente con tali obiettivi e, al contrario, falsando le condizioni di concorrenza, pregiudicherebbe il buon funzionamento del mercato interno. All’applicazione del principio generale di divieto delle pratiche abusive, non può essere d’altronde opposto il diritto dei singoli di trarre vantaggio dalla concorrenza che s’instaura tra gli Stati membri per effetto della mancata armonizzazione della tassazione dei redditi. In generale, non si devono privare gli Stati membri della facoltà di adottare le misure necessarie alla repressione delle frodi e degli abusi.

Ne consegue, dunque, che le autorità e i giudici nazionali sono tenuti a negare il beneficio dei diritti previsti dalla direttiva 2003/49 qualora siano invocati fraudolentemente o abusivamente.

La Corte individua, poi, gli elementi costitutivi dell’abuso e del connesso onere della prova. Più nel dettaglio, la prova di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non sia stato conseguito e, dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione per mezzo della creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento.

Per esempio, nel caso de quo, può essere considerato quale costruzione artificiosa un gruppo di società costituito non per motivi che riflettono la realtà economica, bensì caratterizzato da una struttura puramente formale, avente quale obiettivo principale il conseguimento di un vantaggio fiscale in contrasto con l’oggetto o la ratio della normativa tributaria applicabile. Ciò si verifica, in particolare, quando, grazie a un’entità interposta inserita all’interno della struttura del gruppo tra la società erogatrice degli interessi e la società del gruppo che ne è la beneficiaria effettiva, viene evitato il versamento di imposte sugli interessi stessi. La circostanza che un’entità agisca come società interposta può essere accertata quando l’unica attività della medesima sia costituita dal percepimento degli interessi e dal loro successivo trasferimento al beneficiario effettivo o ad altre società interposte.

Neppure rilevante ai fini dell’eventuale accertamento dell’abuso, è altresì la circostanza che lo Stato membro da cui provengono gli interessi abbia concluso una convenzione con lo Stato terzo in cui risiede la società che ne è beneficiaria effettiva. E, invero, una convenzione di tal genere non può rimettere in discussione l’esistenza di un abuso debitamente accertato sulla base di una serie di fatti comprovanti che taluni operatori economici abbiano effettuato operazioni puramente formali o artificiose, prive di qualsivoglia giustificazione economica o commerciale, essenzialmente al fine di beneficiare indebitamente dell’esenzione dalla ritenuta alla fonte prevista dalla direttiva.

Ciò premesso, la Corte ricorda che spetta in ogni caso al giudice del rinvio verificare:

-          Se gli indizi siano obiettivi e concordanti

-          Se al contribuente sia stata data la possibilità di fornire la prova contraria

Quanto, nello specifico, all’onus probandi, nulla impedisce all’Amministrazione finanziaria interessata di esigere dal contribuente le prove che reputa necessarie per la corretta determinazione dell’imposizione e, se del caso, negare l’esenzione richiesta qualora tali prove non vengano fornite.

Per contro, nel caso in cui l’Amministrazione dello Stato membro d’origine intendesse negare l’esenzione a una società che abbia versato interessi ad altra entità stabilita in un ulteriore Stato membro, spetterà alla medesima Amministrazione dimostrare la sussistenza degli indici costitutivi di una pratica di tal genere, tenendo conto di tutti gli elementi pertinenti, in particolare del fatto che la società destinataria degli interessi versati non ne sia la beneficiaria effettiva. In merito, l’Amministrazione non avrà l’onere di individuare i beneficiari effettivi degli interessi in questione, bensì di accertare che il preteso beneficiario non è altro che una società interposta tramite la quale è stato realizzato un abuso. L’individuazione del beneficiario effettivo esterno potrebbe, infatti, risultare impossibile, in quanto potenzialmente sconosciuto, né conoscibile (ad impossibilia nemo tenetur). E, comunque, anche qualora i vari beneficiari potenziali effettivi siano conosciuti, non è necessariamente dimostrato quali di essi materialmente siano (o saranno) i reali beneficiari effettivi. D’altronde, l’attribuzione degli interessi potrebbe essere decisa successivamente agli stessi accertamenti eseguiti dall’Amministrazione finanziaria nei confronti della società interposta.

Occorre, inoltre, rilevare che la direttiva subordina l’esenzione fiscale alla circostanza che l’entità rivesta lo status di “società di uno Stato membro”. A tal proposito, la società deve soddisfare tre condizioni:

1)      Rivestire una delle forme elencate nell’allegato della direttiva stessa

2)      Essere considerata, in base alla normativa fiscale di uno Stato membro, come se fosse ivi fiscalmente residente e non essere considerata, in base a una convenzione contro le doppie imposizioni, come fiscalmente residente al di fuori dell’Unione europea

3)      Essere soggetta a una delle imposte sui redditi (sempre elencate nell’allegato della direttiva)

Orbene, considerata la normativa tributaria di particolare favore esistente in Lussemburgo per determinati tipi di società, la SICAR in questione – de facto – non parrebbe soddisfare la terza condizione e, pertanto, non risulterebbe ammissibile in ogni caso all’esenzione determinata dalla direttiva. Tuttavia, spetta unicamente al giudice del rinvio procedere, eventualmente, a tutte le necessarie verifiche in merito.

Passando a successiva questione pregiudiziale, la Corte rileva come la normativa nazionale oggetto del procedimento principale prevede che la società residente percettrice d’interessi da un’altra società residente, non sia soggetta all’obbligo di versamento di un acconto d’imposta sulle società nei primi due anni d’imposizione, essendo invece tenuta al versamento dell’imposta sugli interessi medesimi solamente a una scadenza sensibilmente più lontana rispetto a quella prevista per l’adempimento della ritenuta alla fonte in caso di corresponsione d’interessi da parte di una società residente a una società non-residente. Conseguentemente, mentre gli interessi corrisposti da una società residente a una società non-residente sono assoggettati a imposizione immediata e definitiva, gli interessi versati da una società residente ad altra società residente non sono soggetti al versamento di alcun acconto d’imposta; il che procura, così, alla società residente, un vantaggio di tesoreria.

Orbene, l’esclusione di un vantaggio di tesoreria in una situazione transfrontaliera (viceversa, concesso in una situazione equivalente sul territorio nazionale), costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Pertanto, non avendo il Governo danese dedotto alcun motivo imperativo d’interesse generale idoneo a giustificare tale restrizione, si deve concludere che questa normativa è in contrasto con l’articolo 63 TFUE.

In definitiva, detto articolo dev’essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale per effetto della quale, una società residente che corrisponda interessi a una società non-residente è tenuta a operare, sugli interessi medesimi, una ritenuta d’imposta alla fonte, mentre tale obbligo non grava sulla società stessa nel caso in cui la società percettrice degli interessi sia una società parimenti residente. Viceversa, l’anzidetto articolo osta a una normativa nazionale che preveda l’effettuazione di tale ritenuta alla fonte in caso di versamento d’interessi da parte di una società residente ad altra società non-residente, laddove una società residente che percepisca interessi da un’altra società residente, non sia soggetta all’obbligo di versamento di un acconto dell’imposta sulle società nei primi due anni d’imposizione, e non sia quindi tenuta al versamento di detta imposta sugli interessi, se non a una scadenza sensibilmente più lontana rispetto a quella afferente la ritenuta alla fonte. Nel primo caso, infatti, possono esistere ragioni imperative di interesse generale tali da giustificare l’emanazione di una specifica normativa. Nel secondo caso, invece, è indubbia l’attribuzione ingiustificata di un vantaggio (nella concreta fattispecie, di tesoreria), contraria ai principi del Trattato.

Ancora, la Corte rileva come una normativa nazionale che impone alla società residente, tenuta a procedere alla ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi dalla medesima corrisposti a una società non-residente, in caso di tardivo assolvimento di tale ritenuta, degli interessi di mora a un tasso più elevato rispetto a quello applicabile in caso di ritardato pagamento dell’imposta sulle società, gravante, segnatamente, sugli interessi percepiti da una società residente da parte di altra società residente, parimenti attribuisce un vantaggio illegittimo che osta ai principi del Trattato.

Sulla stessa falsa riga, poi, al di là dell’accertamento di una frode o di un abuso, osta ai principi del Trattato una normativa nazionale per effetto della quale, nel caso in cui una società residente sia tenuta a operare una ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi corrisposti a una società non-residente, è esclusa la deducibilità, a titolo di costi d’esercizio, degli oneri finanziari sostenuti dalla medesima e direttamente connessi all’operazione di finanziamento, mentre, in base alla normativa stessa, tali oneri finanziari sono deducibili ai fini della determinazione del reddito imponibile, in caso di corresponsione di interessi da una società residente ad altra società residente.

Cionondimeno, nell’ipotesi in cui il regime di esenzione dalla ritenuta d’imposta alla fonte sugli interessi corrisposti da una società residente in uno Stato membro a una società residente in un altro Stato membro (come previsto dalla direttiva 2003/49), non sia applicabile per effetto dell’accertamento dell’esistenza di una frode o di un abuso, ai sensi dell’articolo 5 della stessa direttiva, l’applicazione delle libertà fondamentali sancite dal Trattato non può essere invocata al fine di mettere in discussione la disciplina di tassazione degli interessi in vigore nel primo Stato membro.

Infine, per quanto attiene alle spese del giudizio, nei confronti delle parti del procedimento principale, la causa attivata in sede UE costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, al quale, dunque, spetterà di statuire in proposito. Le spese, viceversa, sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte – come sempre – non possono dar luogo ad alcuna rifusione.

I principi affermati dalla Corte

Concludendo, nella pronuncia qui oggetto di esame, la Corte ribadisce sostanzialmente per l’ennesima volta i seguenti due principi fondamentali garantiti dal Trattato:

I)                    È vietato usufruire dei benefici previsti dalle direttive se si utilizzano fittizie costruzioni societarie, o comunque vengono poste in essere operazioni fraudolente e, in generale, configuranti delle fattispecie di abuso del diritto: in tali casi, l’Amministrazione finanziaria è legittimata a negare i benefici

II)                  Le normative nazionali non possono attribuire degli ingiustificati vantaggi alle operazioni interne rispetto a quelle transfrontaliere, tali da ledere la libertà di circolazione dei capitali e/o la libertà di stabilimento

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