Paolo Soro

Dipendenti extra-UE inviati temporaneamente in Italia

Uno dei quesiti che, sempre più frequentemente, viene posto ai professionisti italiani, dalle aziende estere (specialmente quelle localizzate in Paesi extra-UE), è quello concernente la richiesta di consulenza, assistenza e gestione del personale inviato in Italia per svolgere lavori temporanei – sostanzialmente, ma non solo – per conto di clientela privata.

Uno dei quesiti che, sempre più frequentemente, viene posto ai professionisti italiani, dalle aziende estere (specialmente quelle localizzate in Paesi extra-UE), è quello concernente la richiesta di consulenza, assistenza e gestione del personale inviato in Italia per svolgere lavori temporanei – sostanzialmente, ma non solo – per conto di clientela privata.

Il caso classico è, senza dubbio, quello che si verifica nel comparto edile: particolari lavori di ristrutturazione commissionati ad aziende straniere specializzate; montaggio di piccoli pre-fabbricati, case antisismiche; assemblaggio di manufatti eco-compatibili, pannelli fotovoltaici et similia. Non di rado, infatti, capita che, in tali situazioni, il committente sia un privato cittadino (o, comunque, non agisca nell’esercizio di un’impresa).

Peraltro, l’edilizia non è l’unico settore interessato: si pensi, per esempio, a richieste di tecnici informatici provenienti da Stati extra-comunitari, o di consulenti finanziari (tipico esempio: attività di trading), o ancora di promotori specializzati in operazioni di investimento mobiliare e immobiliare negli Stati extra-UE. Tutte attività che, in genere, si svolgono “in remoto” (ossia, in modalità telematica, tramite linea Internet); ma che a volte necessitano pure della presenza fisica in loco del lavoratore.

Spesso, inoltre, ci troviamo di fronte a delle società straniere che, nell’ottica di una futura localizzazione di una sede in Italia, incominciano a sondare la ricettività del mercato locale B2C, distaccando per alcuni mesi il proprio personale con compiti dimostrativi dei prodotti e dei servizi forniti, oltre che di ricerca e rilevazione dati, al fine di accertarsi riguardo alla concreta fattibilità e convenienza economica del futuro investimento. All’interno di queste tipologie di attività, per esempio, possiamo ricomprendere anche la partecipazione a stand fieristici, mostre, manifestazioni commerciali (ma anche – per altro verso – eventi congressuali), che impone un trattamento diverso a seconda che si parli della mera presenza dei lavoratori nello stand, ovvero del montaggio dello stand stesso a opera di dipendenti stranieri. La normativa in tema di distacco transnazionale di cui al D. Lgs. 136/2016 troverà infatti applicazione, integralmente e senza alcuna eccezione, anche al di sotto del limite minimo degli otto giorni, per i lavori di “costruzione”, “montaggio” e “smontaggio”, espressamente elencati nell’allegato A del medesimo decreto.

Si tratta di situazioni limite, non facilmente inquadrabili fra gli istituti (quali per l’appunto il distacco) tipizzati dall’Ordinamento interno; specialmente, allorquando si abbia a che fare con dipendenti che svolgono la loro abituale attività lavorativa in Paesi che non hanno in essere con l’Italia una Convenzione in materia di sicurezza sociale.

Invero, in caso di distacco di lavoratori appartenenti a Stati con i quali, viceversa, è vigente una Convenzione in materia di sicurezza sociale, si applicano al suddetto distacco le regole previste da tale accordo internazionale. Nella maggior parte delle Convenzioni stipulate dall’Italia, infatti, si prevede l’istituto del distacco, riconoscendo la possibilità del lavoratore distaccato – “worker posted” – di restare assoggettato (in tutto o in parte) al solo regime previdenziale dello Stato distaccante; così come di regola avviene all’interno dell’Unione Europea o dei Paesi appartenenti allo Spazio Economico Europeo.

Peraltro, giova ricordare che le nazioni al momento firmatarie di una Convenzione in materia di sicurezza sociale con l’Italia sono esclusivamente le seguenti: Argentina, Australia, Brasile, Canada e Québec, ex Jugoslavia (più precisamente: Bosnia Erzegovina, Repubblica federale di Jugoslavia, Macedonia), Israele, Isole del Canale (Jersey, Isola di Man, Guernsey, Aldernay, Herm), Messico, Principato di Monaco, Repubblica di Capo Verde, Repubblica di Corea, Repubblica di San Marino, Stato del Vaticano, Tunisia, Turchia, Stati Uniti d’America, Uruguay e Venezuela.

Il compito del professionista italiano diventa, inoltre, particolarmente delicato, posto che sono evidenti le implicazioni di carattere fiscale (non strettamente inerenti alla normativa lavoristica) che possono giocare un ruolo fondamentale nell’inquadramento – e nelle effettive retribuzioni – dei lavoratori; implicazioni che necessitano di un’analisi particolareggiata delle singole fattispecie col cliente straniero che ha conferito il mandato. Al di là, infatti, delle problematiche connesse all’eventuale residenza fiscale personale dei dipendenti che potrebbe comportare un aggravio tributario con contestuale assottigliamento del “netto” concretamente percepito, non risulta esente da conseguenze comprendere – a esempio – se la fattispecie di interesse può configurare un mero Ufficio di Rappresentanza, o una locale Stabile Organizzazione dell’impresa straniera (elemento che cambierebbe lo scenario anche da un punto di vista previdenziale).

È noto che l’Ufficio di Rappresentanza non può svolgere attività di produzione o di vendita (in caso contrario sarebbe considerato una Stabile Organizzazione). Come ha avuto modo di precisare la Circolare N.1/2008 della Guardia di Finanza: “L’Ufficio di Rappresentanza costituisce, in definitiva, un mero centro di costo, il cui responsabile non ha alcun potere di decidere o di impegnare la società di fronte a terzi; detto Ufficio, conseguentemente, non produce alcun reddito e non soggiace agli obblighi civilistici previsti per le sedi secondarie”.

L’Ufficio di Rappresentanza, quindi, non è obbligato alla tenuta dei libri sociali, né alla presentazione di bilanci o di dichiarazioni dei redditi. Cionondimeno, può procedere all’assunzione di personale dipendente. Dopo di che, il personale dell’Ufficio di Rappresentanza potrebbe essere distaccato presso imprese clienti nazionali per l’esecuzione di servizi postvendita. In tal caso, però, diventerebbe presumibile trovarsi di fronte a una Stabile Organizzazione dell’impresa estera presso il cliente nazionale.

Dal suo canto, la Stabile Organizzazione implica, di regola, la localizzazione di una “sede di affari”, ossia l’esistenza (a qualsiasi titolo) di locali, macchinari, impianti e attrezzature varie per lo svolgimento dell’attività d’impresa, nonché la presenza di personale. Non necessariamente, però, ogni qualvolta istituiamo una sede fissa qual è – esempio – un cantiere, con attrezzature e personale dipendente, abbiamo altresì a che fare anche con una Stabile Organizzazione, posto che il Modello Convenzionale OCSE impone dei termini minimi di durata dello stesso cantiere, onde potersi parlare di Stabile Organizzazione (termini che, fra l’altro, sono spesso rivisti dalle singole Convenzioni Bilaterali/Multilaterali, effettivamente sottoscritte nella pratica tra i vari Paesi fra di loro).

Tale, niente affatto lineare, situazione va a complicarsi ulteriormente quando la presumibile ipotesi di distacco transnazionale comporta, per l’appunto, anche il coinvolgimento di soggetti privati, oltre – ovviamente – al datore di lavoro distaccante e al datore di lavoro distaccatario (come bene illustrato nella Nota INPS 4833 del 05/06/2017). Si ricorda che l’elemento fondamentale per identificare una fattispecie di distacco, è la sussistenza di un legame organico tra lavoratore distaccato e impresa distaccante per tutto il periodo del distacco: “La prestazione lavorativa, necessariamente di durata limitata (attualmente, 24 mesi), deve essere espletata nell’interesse e per conto dell’impresa distaccante, sulla quale continuano a gravare i tipici obblighi del datore di lavoro, ossia la responsabilità in materia di assunzione, la gestione del rapporto, i connessi adempimenti retributivi e previdenziali, nonché il potere disciplinare (seppure, non anche quello direttivo) e di licenziamento” (Vademecum INL).

La definizione di distacco presente nel nostro Ordinamento è quella di cui al comma 1, art. 30, D.Lgs. 273/2003, secondo cui: “L'ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa.”

Parrebbe superfluo precisarlo, ma la norma parla di datori di lavoro; non necessariamente di imprenditori. Ora, sebbene sussista una differenza tra la qualifica di imprenditore e di datore di lavoro, nella pratica, i due termini sono usati come equivalenti. Per essere datore di lavoro, viceversa, non è necessario svolgere un’attività organizzata nella forma d’impresa: pertanto, ogni soggetto di diritto che operi nel campo economico o sociale può assumere la veste di datore di lavoro (persone fisiche, imprenditori, società, persone giuridiche, associazioni, Stato etc.). La disciplina del lavoro contenuta negli artt. 2082 e ss. c.c., che fa riferimento al datore di lavoro imprenditore (art. 2094 c.c.), si applica, infatti, in quanto compatibile, anche ai “rapporti di lavoro subordinato che non sono inerenti all’esercizio di un’impresa” (art. 2239 c.c.). Tale disposizione si riferisce, dunque, a qualunque soggetto che procuri ad altri un’occasione di lavoro (ovviamente in regime di subordinazione), ivi compreso, al limite, chi svolga lavori in economia, assumendo temporaneamente del personale dipendente. Dopo di che, l’attività svolta dal datore di lavoro determina il suo inquadramento ai fini previdenziali e assicurativi.

Tornando, ora, ai chiarimenti (condivisi col Ministero del Lavoro) di cui all’anzidetta Nota INPS, il recente D.Lgs. 136/2016, che ha rimodulato l’istituto del distacco, trova applicazione nei confronti delle imprese straniere, stabilite in uno Stato UE o extra UE che, nell’ambito di una prestazione transnazionale di servizi, distaccano uno o più lavoratori presso un'altra impresa anche se appartenente allo stesso gruppo, o in favore di un'altra unità produttiva, o di un altro destinatario con sede in Italia. La disposizione presuppone l’espletamento di attività lavorative di carattere temporaneo in favore di un destinatario situato sul territorio italiano, che può individuarsi in un’impresa distaccataria appartenente al medesimo gruppo, in un’unità produttiva, filiale, sede operativa dell’azienda straniera distaccante, ovvero in un soggetto committente (che potrebbe essere in ipotesi anche un privato, non imprenditore, il quale assuma la veste di datore di lavoro). Nella fattispecie concreta, occorre riscontrare gli elementi di autenticità dell’intera operazione negoziale posta in essere per tutti e tre i soggetti coinvolti, nel rispetto della normativa nazionale in tema di liceità dell’appalto, distacco e somministrazione di manodopera, con riferimento ai rapporti intercorrenti tra soggetto distaccatario e committente finale. Gli elementi che integrano un’ipotesi di distacco non autentico possono essere molteplici e di diversa natura:

1)      l’impresa distaccante è una società fittizia, non esercitando alcuna attività economica nel Paese d’origine;

2)      l’impresa distaccante non presta alcun servizio, ma si limita a fornire solo il personale in assenza della relativa autorizzazione all’attività di somministrazione;

3)      il lavoratore distaccato, al momento dell’assunzione da parte dell’impresa straniera distaccante, già risiede e lavora abitualmente in Italia;

4)      il lavoratore distaccato, regolarmente assunto dall’impresa distaccante, è stato licenziato durante il periodo di distacco e, in assenza di una comunicazione di modifica della data di cessazione del periodo di distacco, lo stesso continua a prestare attività lavorativa, sostanzialmente in nero, presso l’impresa distaccataria;

il tutto con espresso riferimento a ogni singolo lavoratore coinvolto nel distacco.

Il compito del professionista locale che assiste il cliente straniero sarà, allora, quello di accertarsi circa la regolarità dell’operazione nel suo complesso, eventualmente indicando i necessari correttivi, e avendo cura di controllare, in primis, la documentazione obbligatoria del caso.

Come noto, il decreto citato ha introdotto (in linea con quello che avviene nella maggior parte degli altri Paesi dell’UE) l’obbligo della preventiva comunicazione – entro le ore 24 del giorno antecedente all’inizio del distacco stesso, salvo le ipotesi della c.d. “comunicazione preventiva posticipata” – attraverso la compilazione del Modello UNI Distacco UE, che, a dispetto del nome, deve essere utilizzato anche nei casi di distacco da nazioni extra-UE. In effetti, come del resto già previsto dal D.Lgs. 72/2000, anche le ipotesi di distacco posto in essere da imprese stabilite in uno Stato terzo/extra UE, sono regolamentate dal “136”, fatte salve le fattispecie che risultino disciplinate da leggi speciali (esempio: Direttiva 2014/66/UE relativa ai trasferimenti intra-societari di dirigenti e lavoratori altamente qualificati, operati da imprese aventi sede in Paesi extra-UE).

Con il citato Modello UNI Distacco UE, si devono fornire una serie di informazioni obbligatorie, tra le quali: i dati identificativi del prestatore di servizi/impresa distaccante straniera e del soggetto distaccatario italiano (sede e/o filiale in Italia dell’azienda distaccante, ovvero di altro operatore economico); il numero previsto e la generalità dei lavoratori coinvolti; la durata del distacco (la data di inizio e di fine dello stesso, nonché eventuali proroghe); la sede del distacco quale luogo di svolgimento effettivo della prestazione che può anche non coincidere con la sede del soggetto distaccatario (esempio: nei cantieri o nelle ipotesi in cui l’esecuzione dei lavori viene espletata presso la sede/unità produttiva di altra impresa, destinataria finale della prestazione, in presenza di un idoneo titolo giuridico – contratto di appalto o subappalto). In sostanza, il soggetto distaccatario è individuato nella sede/filiale italiana della stessa impresa straniera distaccante, ovvero di altro operatore economico stabilito in Italia; mentre la sede del distacco va individuata presso il luogo di effettivo svolgimento della prestazione lavorativa da parte del personale distaccato (luogo nel quale, tra l’altro, dovranno essere osservati tutti gli adempimenti prescritti in materia di salute, sicurezza e igiene dei posti di lavoro).

Si badi bene che i destinatari di tali obblighi sono esclusivamente i prestatori di servizi stranieri/aziende distaccanti, e non invece le imprese distaccatarie italiane, né tantomeno i soggetti individuati come referenti. Peraltro, detti prestatori di servizi devono fornire i dati del soggetto referente (in genere, il professionista locale) e il domicilio di quest’ultimo in Italia. In assenza, come sede dell'impresa distaccante si considera il luogo dove ha sede legale o risiede il destinatario della prestazione di servizi, ossia il soggetto distaccatario, o il datore di lavoro privato non imprenditore che fruisce del lavoro svolto dai dipendenti stranieri. Giova ricordare, infatti, che la normativa contempla tre diverse ipotesi di distacco di lavoratori:

1        da parte di un’azienda avente sede in un diverso Stato, presso una propria filiale situata in Italia;

2        da parte di un’azienda avente sede in un diverso Stato, presso un’azienda italiana appartenente al medesimo gruppo di imprese (distacco infragruppo);

3        nell’ambito di un contratto di natura commerciale (appalto d’opera o di servizi, trasporto etc.), stipulato con un committente (impresa o altro destinatario) avente sede nel territorio italiano.

In merito alla figura del referente, inoltre, occorre evitare di fare confusione tra il referente (ex art. 10, comma 3, lett. b) e il rappresentante di cui all’art. 10, comma 4.

Il primo/referente (già sopra menzionato), deve essere elettivamente domiciliato in Italia ed è incaricato di esibire, inviare e ricevere documenti (esempio: richieste di informazioni e di documentazione, notifica dei verbali di primo accesso e di accertamento delle violazioni), in nome e per conto dell’impresa distaccante, ivi compresa la formale notifica di atti alla società stessa da parte del personale di vigilanza (fermo restando che il soggetto destinatario degli obblighi e degli eventuali provvedimenti sanzionatori, resta comunque il solo prestatore dei servizi; mai il menzionato referente). In sostanza, il referente avrà l’obbligo di conservare, durante il periodo di distacco e fino a due anni dalla sua cessazione, predisponendone copia in lingua italiana, il contratto di lavoro o altro documento equipollente, i prospetti paga, i prospetti che indicano l’inizio, la fine e la durata dell’orario di lavoro giornaliero, la documentazione comprovante il pagamento delle retribuzioni o i documenti equivalenti, la comunicazione pubblica d’instaurazione del rapporto di lavoro e il certificato relativo alla Legislazione di sicurezza sociale applicabile (Formulari: A1 INPS e DA1 INAIL).

Il secondo/rappresentante (che può anche coincidere con l’anzidetto referente – opzione sicuramente sconsigliata nel caso di nomina del commercialista in veste di referente), agisce in qualità appunto di rappresentante legale, al fine di mettere in contatto le parti sociali interessate con il prestatore di servizi per un’eventuale negoziazione collettiva; tale persona di contatto non ha l’obbligo di essere presente nel luogo di svolgimento dell’attività lavorativa in distacco, ma deve rendersi disponibile in caso di richiesta motivata.

Appare superfluo ribadire che, nelle ipotesi in cui il distacco non risulti autentico, il lavoratore è considerato a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha concretamente utilizzato la prestazione. Conseguentemente, il personale ispettivo dovrà applicare la disciplina italiana, riconducendo il rapporto di lavoro in capo al distaccatario (committente/utilizzatore), dal giorno d’inizio dell’attività svolta in “pseudo distacco”.

Si rammenta, inoltre, che in ogni ipotesi in cui il personale (anche extra-UE) svolge attività in Italia (senza pregiudizio per le norme in vigore nell’eventuale Paese di effettiva residenza “non convenzionato”), devono essere rispettati i livelli minimi delle condizioni di lavoro e di occupazione. Nello specifico, come già chiarito dal Ministero del Lavoro nella Circolare 14/2015, l'attività lavorativa risulta disciplinata dalle disposizioni di legge, dalle indicazioni amministrative e dalle clausole della contrattazione collettiva italiana, con riferimento a:

-          periodi massimi di lavoro e minimi di riposo;

-          durata minima delle ferie annuali retribuite;

-          tariffe minime salariali, comprese le tariffe maggiorate per lavoro straordinario;

-          salute, sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro;

-          non discriminazione tra uomo e donna;

-          condizioni di cessione temporanea di lavoratori da parte delle agenzie di somministrazione.

Nello specifico, la nozione di tariffe salariali comprende le seguenti voci:

-          paga base;

-          elemento distinto contrattuale della retribuzione;

-          indennità legate all’anzianità di servizio;

-          superminimi;

-          retribuzioni corrispettive per prestazioni di lavoro straordinario, notturno e festivo;

-          indennità di distacco (se compensative del disagio dovuto all’allontanamento dei lavoratori dal loro ambiente abituale);

-          indennità di trasferta.

Le anzidette indicazioni risultano, dunque, fondamentali proprio per la gestione del personale proveniente da uno Stato extra-UE privo di convenzione in materia di sicurezza sociale con l’Italia. In tali ipotesi, infatti, i dipendenti (fermo restando l’ottenimento dei necessari visti/permessi di lavoro del caso – oltre alla comunicazione preventiva di cui si è detto) saranno assoggettati alle retribuzioni e ai versamenti contributivi italiani, anche se il loro datore di lavoro distaccante, dovrebbe teoricamente già provvedere a tali obblighi nello Stato di origine.

Occorrerà, in pratica, aprire una specifica posizione INPS e INAIL a cura del committente italiano che usufruisce concretamente della prestazione lavorativa. Ciò poiché, in queste situazioni, vige il generale “principio di territorialità” (“lex loci laboris”), in forza del quale il lavoratore è soggetto alla Legislazione dello Stato in cui svolge la propria attività lavorativa, non essendo applicabile l’eccezione prevista nei Paesi UE o SEE, o comunque tra nazioni in cui esiste una specifica convenzione in materia di sicurezza sociale.

Ovviamente, il principio in parola vale anche nell’ipotesi inversa: dipendenti di azienda italiana che vengono distaccati in uno Stato extra-UE / SEE, non convenzionato. Peraltro, nella pratica, in genere qui si ovvia a tale doppia retribuzione/contribuzione, collocando in aspettativa volontaria (su domanda del diretto interessato) il dipendente in questione. Così, di fatto, sospendendone la prestazione lavorativa italiana, a fronte di un maggior ristoro salariale “estero” (cosa che, però, non necessariamente è prevista – a posizioni invertite – anche dalla Legislazione dell’eventuale nazione straniera di riferimento). Ciononostante, è bene rammentare che, per i lavoratori italiani inviati all’estero in Paesi non legati con la nostra nazione da accordi in materia di sicurezza sociale, il DL 317/1987 prevede una tutela minima obbligatoria, rendendo necessario il versamento in Italia di una serie di contributi.

Sempre da un punto di vista pratico, la possibilità di inviare un lavoratore italiano in un Paese extracomunitario, è comunque subordinata al rilascio di un’autorizzazione da parte del Ministero del Lavoro (tramite procedura online). Nel caso, poi, dei Paesi indicati nell’apposito elenco ministeriale, le cui condizioni politiche, sociali, sanitarie ed economiche non diano certezza di offrire idonee garanzie per la sicurezza del lavoratore, è necessario anche il parere preventivo del Ministero degli Esteri. Ottenuta l’autorizzazione, occorre richiedere il nulla osta alle Direzioni Regionali del Lavoro, per verificare che il lavoratore sia iscritto alla LIE (Lista degli Italiani che intendono lavorare all’Estero). Il datore di lavoro, che riceve il nulla osta, è tenuto a comunicare l’assunzione del lavoratore entro le 24 ore precedenti all’inizio del rapporto di lavoro, o (in caso di lavoratore già assunto) il distacco medesimo entro 5 giorni dal suo inizio, utilizzando l’apposita sezione del modello UNILAV.

A conclusione del presente contributo, ci pare opportuno ritornare sui pericolosi intrecci esistenti tra la normativa fiscale internazionale e quella del lavoro, per richiamare l’attenzione su un aspetto particolarmente delicato che concerne le operazioni di distacco transnazionale infragruppo: ossia, conciliare la prassi relativa al rimborso degli effettivi costi sopportati dal datore di lavoro distaccante per il personale inviato in distacco, con il rispetto della normativa in materia di transfer pricing.

È noto che il datore di lavoro distaccante invia in distacco il proprio personale per soddisfare un suo interesse e ne sostiene formalmente i costi retributivi e contributivi. Siccome, però, è il datore di lavoro distaccatario che usufruisce concretamente della prestazione lavorativa, quest’ultimo restituisce al distaccante tutti i costi effettivi connessi con detta prestazione. Tale riaddebito dei costi del lavoratore si configura come operazione fiscalmente neutra: i costi sostenuti per il distacco sono deducibili dalla base imponibile ai fini della determinazione del reddito d’impresa; analogamente, il rimborso ricevuto rientra tra i ricavi.

Da notare che alcuni Uffici hanno ipotizzato l’assenza del prescritto requisito di inerenza degli anzidetti costi (ex art. 109 TUIR), in considerazione del fatto che i dipendenti vanno a lavorare presso un altro soggetto. Ad avviso di chi scrive, detta eccezione è priva di pregio: posto che il distacco è tale esclusivamente se viene soddisfatto l’anzidetto interesse del distaccante, appare evidente che, in tale medesimo interesse, risiede ogni requisito di inerenza concernente i costi dell’operazione (costi che, peraltro, sono controbilanciati dai rimborsi ricevuti).

Il problema, però, è un altro: il rimborso di regola concerne esclusivamente il riaddebito dei costi fini a sé stessi; l’Ispettorato del Lavoro ha più volte rappresentato come la corresponsione di ulteriori somme configuri – a mente della normativa italiana – una fattispecie di illecita somministrazione di manodopera. Ciò, senza oltre tutto considerare che dette ulteriori somme diverrebbero immediatamente imponibili fiscalmente, e potrebbero in ipotesi essere considerate pure come una forma di retribuzione di fatto, a carattere straordinario, soggetta a contribuzione. 

Orbene, al distacco del personale dipendente in ambito internazionale si applica la disciplina del transfer pricing, ai sensi della quale le transazioni intercorrenti tra una società italiana e un’impresa non residente, appartenente al medesimo gruppo, devono avvenire a “valore normale”. Per meglio dire, essendo il distacco – a tutti gli effetti – una prestazione di servizi, detta operazione deve essere valutata come qualunque transazione internazionale che avviene fra “società indipendenti”. In sostanza, ciò imporrebbe l’applicazione di un mark-up al puro costo del personale inviato a lavorare all’estero, così andandosi però a scontrare con quanto appena visto in tema di rimborsi del distacco.

In effetti, in ottica transfer pricing, risulta necessario documentare:

-          la correttezza del criterio di determinazione del compenso/costo;

-          il vantaggio dell’operazione;

-          la congruità del prezzo e dei criteri di addebito (c. d. “valore normale”).

Tutti elementi che, in ipotesi di distacco transnazionale, potrebbero essere previamente stabiliti contrattualmente, mediante l’integrazione dell’abituale accordo tra distaccante e distaccatario, con un più completo Intercompany Service Agreement. Soluzione che, peraltro, risolverebbe la problematica di tipo fiscale, ma lascerebbe aperti i rischi di carattere giuslavoristico.

Esistono, sicuramente dei casi in cui il surplus (o mark-up) non appare oggettivamente applicabile: esempio, nell’ipotesi di servizi riconducibili alla mera attività di direzione generale e amministrativa, resa dalla casa madre. Ma, evidentemente, non sempre ci troveremo di fronte a simili fattispecie. E allora? Come comportarsi?

Il ragionamento che, a nostro modesto avviso, occorre fare è il seguente: la ratio connessa al transfer pricing è quella di evitare che aziende appartenenti al medesimo gruppo, pongano in essere delle operazioni a costi “fuori mercato” (così, di fatto, operando in regime di concorrenza sleale e nascondendo potenziale materia imponibile all’Erario), approfittando dei rapporti inter-societari esistenti fra loro, e mettendo in essere operazioni che, fra “imprese indipendenti”, viceversa, comporterebbero dei costi ulteriori.

Ebbene, laddove le operazioni di distacco sono pacificamente messe in atto sempre (sia tra imprese appartenenti allo stesso gruppo, che tra “società indipendenti”), prevedendo il solo ristoro dei costi effettivi, senza l’aggiunta di un ulteriore margine di guadagno (proprio perché l’operazione di distacco è attuata per soddisfare l’interesse e la convenienza dell’azienda distaccante, e non di quella distaccataria, per cui non avrebbe alcun senso pretenderne pure un compenso extra – oltre al rimborso delle sole spese effettive), appare evidente che non si può obbligare gli imprenditori ad applicare un mark-up per il solo fatto che distaccante e distaccatario appartengono al medesimo gruppo societario, quando, il “valore di mercato” (ossia, le modalità di addebito dei costi) è identico anche quando ci troviamo di fronte a un distacco transnazionale effettuato tra “imprese indipendenti”.

Naturalmente, occorrerà precostituire anticipatamente tutta l’eventuale documentazione atta a provare l’anzidetto “valore normale” o “valore di mercato” per tali prestazioni/distacchi. Esempio: si potrà fornire prova che la società distaccante ha utilizzato lo stesso criterio di determinazione dei costi, quando si è trattato di inviare il proprio personale in distacco (interno o transnazionale) presso altre società esterne indipendenti; si potrà, inoltre, evidenziare come questo sia l’ordinario modus operandi regolarmente messo in atto nella maggior parte dei casi di distacco tra “imprese indipendenti”.

Tutte questioni niente affatto pacifiche, come, viceversa, la nostra esperienza in materia di lavoro potrebbe indurci a pensare: sia perché, nella pratica, non sono poi così infrequenti i casi in cui i distacchi transnazionali prevedono un mark-up; sia perché ci troveremo – quasi sempre – a dovere fronteggiare contestazioni che provengono da funzionari dell’Agenzia delle Entrate (e, non di rado, pure dell’Agenzia delle Dogane), i quali verificano qualsivoglia prestazione di servizi internazionale sempre e solo in ottica di transfer pricing.

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