La situazione attuale
Prima di addentrarci nell’esame della pronuncia, però, consentiteci una breve introduzione di carattere generale per ricordare che, nella Gazzetta Ufficiale dell'UE del 9 luglio scorso, è stata pubblicata la Direttiva dell'Unione europea 2018/957 in tema di distacco transnazionale. I principi fondamentali, ribaditi dal Legislatore comunitario, sono i soliti:
- la garanzia di un salario minimo, di un periodo minimo di riposo e di lavoro, nonché di un congedo annuale retribuito;
- la parità di condizioni per l'esercizio del lavoro interinale, della sicurezza e della salute dei lavoratori;
- la parità di trattamento tra uomini e donne;
- l’uniformità delle varie norme nazionali;
- il rafforzamento delle regole anti-dumping sul distacco transazionale dei lavoratori;
- la protezione dei lavoratori distaccati;
- la parità di trattamento tra lavoratore distaccato e lavoratore "locale";
- l’obbligo di applicare ai lavoratori distaccati le stesse regole che si applicano ai lavoratori "locali", indipendentemente dalla legge che regola il rapporto di lavoro, e ciò non solo in riferimento alle disposizioni normative, ma anche con riguardo al contratto collettivo, a prescindere dal settore di mercato.
Si cerca, in sostanza, di trovare sempre il giusto equilibrio tra la tutela dei lavoratori distaccati e il diritto delle imprese che distaccano lavoratori nel territorio di un altro Stato membro, di potere appellarsi al sommo principio della libera prestazione dei servizi.
Tra le novità maggiormente interessanti proposte dalla Direttiva, preme porre particolare attenzione alle seguenti prescrizioni.
- Nel concetto di retribuzione, il riferimento alle "tariffe minime salariali" viene sostituito con quello più ampio della "retribuzione globale” prevista dalle norme e dai contratti.
- Viene incrementato l'elenco delle materie per cui si prevede l'applicazione della legge dello Stato membro ospitante, includendovi la disciplina in tema di alloggio, indennità o rimborso spese di viaggio, vitto e alloggio in caso di trasferte o viaggi richiesti dalla società distaccataria (che devono essere pari a quelle previste per i lavoratori "locali"). A tal proposito, viene precisato che le indennità specifiche per il distacco devono essere considerate parte della retribuzione sempre che non siano versate a titolo di rimborso delle spese effettivamente sostenute per il distacco (spese di viaggio, vitto e alloggio) e, in tal caso, dovranno essere rimborsate dal datore di lavoro in conformità alle norme applicabili al rapporto di lavoro.
- È previsto l’obbligo, per ciascuno Stato membro, di pubblicare sul sito web istituzionale gli elementi da cui è composta la retribuzione, così come tutte le altre condizioni di lavoro e di occupazione applicabili al lavoratore distaccato in base alle leggi, regolamenti o contratti collettivi dello Stato distaccatario.
- Viene diminuito il periodo massimo del distacco, da 24 mesi a 12 mesi; dopo i primi 12 mesi (eventualmente, estendibili fino a 18, con notifica motivata del prestatore di servizi), al lavoratore distaccato verranno applicate le condizioni di lavoro e di occupazione previste dallo Stato membro ospitante restando solo escluse, per espressa volontà del Legislatore, le procedure, le formalità e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto, le clausole di non concorrenza e i regimi pensionistici integrativi di categoria. Ciò significa che, trascorso tale periodo, al lavoratore distaccato si applicherà la normativa contributiva dello Stato membro distaccatario (e non più quella dello Stato membro di invio). Al fine, poi, di evitare un uso distorto del distacco, nel caso in cui il lavoratore distaccato sia sostituito da un altro lavoratore, il periodo di 12 mesi (o 18 mesi) dovrà essere calcolato sommando i periodi di ciascun lavoratore.
Quest’ultima previsione, come avremo modo di vedere nell’analizzare la pronuncia qui oggetto di commento, comporta una più attenta valutazione circa gli effetti dell’interpretazione fornita dalla Corte su uno degli specifici quesiti che le sono stati rivolti, pur tenendo conto del generale principio giuridico del “tempus regit actum”.
L'entrata in vigore della Direttiva (ossia, la data entro cui i Governi nazionali dovranno adeguare le rispettive normative interne) è fissata al 30 luglio 2020.
La vicenda portata all’attenzione della Corte UE
Venendo alla fattispecie per cui è causa, la domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento (CE) 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, e dell’articolo 5 e dell’articolo 19, paragrafo 2, del Regolamento (CE) 987/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, nel quale sono stabilite le modalità di applicazione. Sostanzialmente e molto brevemente, la controversia concerne i lavoratori distaccati in uno Stato membro diverso da quello in cui il datore di lavoro svolge abitualmente le sue attività, e il rilascio del certificato A1 da parte dello Stato membro di origine, dopo il riconoscimento da parte dello Stato membro ospitante dell’assoggettamento dei lavoratori al suo regime di sicurezza sociale.
I fatti
La società Alpenrind opera nel settore della commercializzazione di bestiame e di carni. Dal 1997, gestisce a Salisburgo un impianto di macellazione, preso in affitto.
Nel 2007, l’Alpenrind stipulava con la Martin-Meat, avente sede in Ungheria, un contratto secondo il quale quest’ultima si impegnava a effettuare operazioni di sezionamento e confezionamento di carni. I lavori venivano svolti nei locali dell’Alpenrind da lavoratori distaccati in Austria.
Il 31 gennaio 2012, la Martin-Meat abbandonava il settore della preparazione dei tagli e svolgeva, da quel momento, attività di macellazione per conto dell’Alpenrind.
Il 24 gennaio 2012, l’Alpenrind stipulava con la Martimpex, anch’essa con sede in Ungheria, un contratto in base al quale quest’ultima si impegnava a effettuare per l’Alpenrind, nel periodo compreso tra il 1° febbraio 2012 e il 31 gennaio 2014, operazioni di sezionamento di carni. Anche in tal caso, i lavori venivano svolti nei locali dell’Alpenrind da lavoratori distaccati in Austria. La carne sezionata veniva ritirata dalla Martimpex, tagliata in pezzi più piccoli e confezionata dai suoi lavoratori.
A partire dal 1° febbraio 2014, l’Alpenrind concordava nuovamente con la Martin-Meat lo svolgimento da parte di quest’ultima di dette operazioni di sezionamento di carne nei locali sopraindicati.
Per i più di 250 lavoratori impiegati dalla Martimpex nel periodo controverso, il competente ente di sicurezza sociale ungherese emetteva – in parte, con effetto retroattivo, e, in parte, in casi in cui l’ente di sicurezza sociale austriaco aveva già accertato la sussistenza di un obbligo di assicurazione del lavoratore interessato in base alla legislazione austriaca – attestati di applicabilità delle disposizioni di legge ungheresi della sicurezza sociale, a norma degli articoli da 11 a 16 del Regolamento 883/2004 e dell’articolo 19 del regolamento 987/2009. Ciascuno di tali certificati individuava l’Alpenrind come datore di lavoro per l’attività professionale in loco.
La Cassa Malattia di Salisburgo accertava l’assoggettamento dei suddetti lavoratori all’assicurazione obbligatoria austriaca nel periodo controverso, conformemente al Codice nazionale della previdenza sociale e alla legge interna sull’assicurazione contro la disoccupazione, basandosi sull’attività subordinata che essi avevano svolto per un’impresa comune dell’Alpenrind, della Martin-Meat e della Martimpex.
Il Tribunale amministrativo dell’Austria, annullava detta decisione della Cassa Malattia di Salisburgo per incompetenza dell’ente di previdenza sociale austriaco, posto che tale competenza spettava all’ente di sicurezza sociale ungherese, il quale aveva emesso, per ciascuna persona soggetta all’obbligo di assicurazione austriaca, un certificato A1 indicante che a partire da una certa data la persona interessata era un lavoratore della Martimpex occupato in Ungheria e ivi soggetto a obbligo di assicurazione, e che esso era distaccato in Austria presso l’Alpenrind, prevedibilmente, per i periodi indicati nei rispettivi formulari, tra cui rientrano i periodi controversi.
Nell’impugnazione proposta avverso detta sentenza dinanzi al giudice del rinvio, la Cassa Malattia di Salisburgo e il Ministro contestavano la tesi secondo cui i certificati A1 avevano efficacia vincolante assoluta. Tale efficacia vincolante si basava, a loro parere, sul rispetto del principio di leale cooperazione tra gli Stati membri, sancito dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE; e, a loro avviso, l’ente di sicurezza sociale ungherese aveva violato tale principio.
Secondo il Giudice del rinvio, l’Ungheria ha osservato che solo una decisione giudiziaria poteva fornire una soluzione alla situazione di stallo in cui anch’essa si trovava, e che il diritto nazionale ungherese si opponeva a una revoca del certificato A1.
La Cassa Malattia di Salisburgo ritiene di non avere alcuna legittimazione ad agire in Ungheria. A suo avviso, l’unica strada per pervenire a una decisione nel merito è l’accertamento dell’esistenza di un obbligo di assicurazione austriaca, seppur in presenza dei certificati A1 dell’ente competente ungherese.
Inoltre, il Giudice del rinvio rileva che il Ministro ha prodotto documenti da cui risulta che la Commissione Amministrativa, in data 20 e 21 giugno 2016, ha stabilito che l’Ungheria si era erroneamente dichiarata competente per i lavoratori interessati e che, quindi, i certificati A1 dovevano essere revocati.
Detto Giudice del rinvio considera, dunque, che la controversia di cui è investito solleva alcune questioni interpretative del diritto dell’Unione. In particolare, in primo luogo, tale Giudice osserva che, secondo il testo dell’articolo 5 del regolamento 987/2009, solo gli enti di sicurezza sociale degli Stati membri sono vincolati ai documenti attestanti la situazione di una persona ai fini dell’applicazione dei regolamenti 883/2004 e 987/2009, nonché alle relative certificazioni. Pertanto, detto Giudice dubita che tale efficacia vincolante valga anche per i giudici nazionali. In secondo luogo, il Giudice del rinvio nutre dubbi, da un lato, circa l’eventuale incidenza dello svolgimento del procedimento dinanzi alla Commissione Amministrativa sull’efficacia vincolante dei certificati A1. In particolare, tale Giudice chiede se, dopo un procedimento dinanzi alla Commissione Amministrativa che non ha portato né a un accordo, né alla revoca dei certificati A1, l’efficacia vincolante di tali certificati non venga meno e se sia quindi possibile avviare un procedimento di accertamento dell’obbligo di assicurazione.
Dall’altro lato, lo stesso Giudice del rinvio osserva che, nel caso di specie, alcuni certificati A1 sono stati emessi retroattivamente, e in parte solo dopo che l’ente austriaco aveva già accertato l’obbligo di assicurazione. Pertanto, detto Giudice si chiede se l’emissione di siffatti documenti spieghi efficacia vincolante retroattiva qualora sia già stato formalmente accertato l’obbligo di assicurazione nello Stato membro ospitante. Infatti, secondo lo stesso Giudice, si potrebbe sostenere che anche gli atti emessi dagli enti austriaci con cui è accertato l’obbligo di assicurazione costituiscono documenti dotati di pari efficacia normativa.
In terzo luogo, nel caso in cui, in determinate circostanze, i certificati A1 abbiano solamente un’efficacia vincolante limitata, il Giudice del rinvio si chiede se la condizione secondo cui la persona distaccata rimane soggetta alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro è stabilito, purché non sia inviata in sostituzione di un’altra persona, debba essere interpretata (quale sorta di clausola “anti-abuso”) nel senso che un lavoratore non può essere sostituito nell’immediato da un altro lavoratore distaccato ex novo, a prescindere da quale sia l’impresa o lo Stato membro di provenienza di tale lavoratore distaccato ex novo.
In tale contesto, la Corte Amministrativa austriaca ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
- Se l’efficacia vincolante dei documenti operi anche nell’ambito di un procedimento dinanzi a un giudice.
Ove sia data risposta positiva:
- Se la suddetta efficacia vincolante operi anche quando, in precedenza, si è svolto un procedimento dinanzi alla Commissione Amministrativa che non ha portato né a un accordo, né alla revoca dei documenti controversi.
- Se la suddetta efficacia vincolante operi anche quando un certificato A1 viene rilasciato solo dopo che lo Stato membro ospitante ha formalmente accertato l’obbligo di assicurazione in base alla propria normativa.
- Se l’efficacia vincolante operi, in tali casi, anche retroattivamente.
Ove, a determinate condizioni, i documenti spieghino una limitata efficacia vincolante:
- Se sussista una violazione del divieto di sostituzione previsto dal Regolamento 883/2004, quando la sostituzione avviene mediante un distacco, non da parte dello stesso datore di lavoro, ma di un altro datore di lavoro.
- Se, a tal riguardo, rilevi il fatto che il datore di lavoro in parola ha la propria sede nello stesso Stato membro del primo datore di lavoro, oppure il fatto che tra il primo e il secondo datore di lavoro distaccante sussistono legami sotto il profilo personale e/o organizzativo.
Il Contesto normativo
Prima di passare all’analisi delle risposte fornite dalla Corte, giova richiamare il contesto normativo di riferimento: Regolamento 883/2004 e Regolamento 987/2009.
Regolamento 883/2004
“Le norme di coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale s’iscrivono nell’ambito della libera circolazione delle persone e dovrebbero contribuire al miglioramento del loro livello di vita e delle loro condizioni d’occupazione.” Questo, il principio base attorno al quale ruotano (o devono ruotare) le varie normative interne.
Si tratta, in sostanza, di garantire quel coordinamento normativo complessivo, in modo tale da consentire alle persone interessate la parità di trattamento rispetto alle diverse legislazioni nazionali.
Orbene, detto principio generale della parità di trattamento è di particolare importanza, specie per i lavoratori che non risiedono nello Stato membro in cui lavorano, compresi pure i lavoratori frontalieri.
È necessario assoggettare le persone che si spostano all’interno dell’UE al regime di sicurezza sociale di un unico Stato membro, in modo da evitare il sovrapporsi di legislazioni nazionali applicabili, e le complicazioni che ne possono derivare.
Appare ovvio come, allo scopo di garantire nel modo migliore la parità di trattamento di tutte le persone occupate nel territorio di uno Stato membro, sia opportuno stabilire come legislazione applicabile, in via generale, la legislazione dello Stato membro nel cui territorio l’interessato esercita la sua attività subordinata o autonoma. Ferma restando la possibilità di deroga in situazioni specifiche che giustificano un altro criterio di applicabilità.
A parere della Corte, tra l’altro, il principio dell’unicità della legislazione applicabile è di grande importanza e dovrebbe essere rafforzato. Per perseguire tale risultato, la Comunità può intervenire, in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 del trattato.
Nel successivo titolo II, il Regolamento inoltre ribadisce che:
- Le persone alle quali si applica il presente Regolamento sono soggette alla legislazione di un singolo Stato membro.
- Una persona che esercita un’attività subordinata o autonoma in uno Stato membro è soggetta alla legislazione di tale Stato membro.
- La persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro per conto di un datore di lavoro che vi esercita abitualmente le sue attività ed è da questo distaccata, per svolgervi un lavoro per suo conto, in un altro Stato membro rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona.
Circa, in particolare, il funzionamento della Commissione Amministrativa, l’attuale normativa dispone quanto segue.
La Commissione è incaricata di:
- trattare ogni questione amministrativa e di interpretazione derivante dalle disposizioni del presente Regolamento, o da quelle del Regolamento 987/2009, o di ogni altro accordo concluso, o che dovesse intervenire nell’ambito di questi, fatto salvo il diritto delle Autorità, delle Istituzioni e delle persone interessate di fare ricorso alle procedure e alle giurisdizioni previste dalla legislazione degli Stati membri, dal presente Regolamento o dal trattato;
- promuovere e sviluppare la collaborazione tra gli Stati membri e le loro Istituzioni in materia di sicurezza sociale, al fine tra l’altro di tenere conto dei problemi specifici di alcune categorie di persone;
- agevolare, nel settore del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la realizzazione di azioni di cooperazione transfrontaliera.
Le Autorità competenti degli Stati membri si comunicano tutte le informazioni concernenti:
a) i provvedimenti adottati per l’applicazione del presente Regolamento;
b) le modifiche delle loro legislazioni che possono influire sull’applicazione del presente Regolamento.
In ogni caso, le Autorità e le Istituzioni degli Stati membri devono prestarsi assistenza come se si trattasse dell’applicazione della propria legislazione interna.
Regolamento 987/2009
La norma, preliminarmente, osserva come l’organizzazione d’una cooperazione più efficace e più stretta tra le Istituzioni di sicurezza sociale appaia fattore essenziale per permettere alle persone cui si applica il Regolamento 883/2004 di esercitare i loro diritti nei tempi più brevi e nelle migliori condizioni possibili. Il rafforzamento di certe procedure dovrebbe comportare maggiore sicurezza giuridica e trasparenza. A esempio, la fissazione di termini comuni per l’espletamento di determinati obblighi o di determinate formalità amministrative dovrebbe contribuire a chiarire e strutturare le relazioni tra le persone assicurate e le Istituzioni.
Numerose misure e procedure previste dal Regolamento in parola sono dirette ad accrescere la trasparenza circa i criteri che le istituzioni degli Stati membri devono applicare. Queste misure e procedure risultano dalla Giurisprudenza della Corte, dalle decisioni della Commissione Amministrativa e dall’esperienza di oltre trent’anni di applicazione del coordinamento dei regimi di sicurezza sociale nel quadro delle libertà fondamentali previste dal trattato.
Il titolo I del Regolamento – oltre al resto – definisce il valore giuridico dei documenti e delle certificazioni rilasciati in un altro Stato membro:
“I documenti rilasciati dall’Istituzione di uno Stato membro che attestano la situazione di una persona ai fini dell’applicazione dei due Regolamenti (883/2004 e 987/2009), nonché le certificazioni su cui si è basato il rilascio dei documenti, sono accettati dalle Istituzioni degli altri Stati membri, fintantoché essi non siano ritirati o dichiarati non validi dallo stesso Stato membro in cui sono stati rilasciati.
In caso di dubbio sulla validità del documento o sull’esattezza dei fatti su cui si basano le indicazioni che vi figurano, l’Istituzione dello Stato membro che riceve il documento chiede all’Istituzione emittente i chiarimenti necessari e, se del caso, il ritiro del documento. L’Istituzione emittente riesamina i motivi che hanno determinato l’emissione del documento e, se necessario, procede al suo ritiro.”
Inoltre, in caso di dubbio sulle informazioni fornite dalla persona interessata, riguardo alla validità del documento, o alle certificazioni, o all’esattezza dei fatti su cui si basano le indicazioni che vi figurano, l’Istituzione del luogo di dimora o di residenza procede, qualora le sia possibile, su richiesta dell’Istituzione competente, alle verifiche necessarie.
In mancanza di accordo tra le Istituzioni interessate, la questione può (non prima che sia trascorso un mese dalla data in cui è sorta la divergenza) essere sottoposta alla Commissione Amministrativa, per il tramite delle Autorità competenti. La Commissione Amministrativa cerca una conciliazione dei punti di vista entro i sei mesi successivi alla data in cui la questione le è stata sottoposta.
In caso di divergenza di punti di vista tra le Istituzioni o le Autorità di due o più Stati membri sulla determinazione della legislazione applicabile, la persona interessata è soggetta in via provvisoria alla legislazione di uno di tali Stati membri, secondo un ordine che pone in prima istanza la competenza della legislazione dello Stato membro in cui la persona esercita effettivamente la sua attività professionale, subordinata o autonoma, se questa è esercitata in un solo Stato membro.
Il Regolamento, nella sua formulazione ratione temporis, stabiliva altresì che:
“Salva disposizione contraria, qualora la persona eserciti un’attività in uno Stato membro diverso dallo Stato membro competente, il datore di lavoro o, per la persona che non esercita un’attività subordinata, l’interessato, ne informa, se possibile preventivamente, l’Istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione è applicabile. Detta istituzione senza indugio rende disponibili le informazioni relative alla legislazione applicabile per l’interessato.”
Il tenore letterale della disposizione, come oggi in vigore, precisa che l’Istituzione interessata rilascia alla persona il certificato A1 e, senza indugio, rende disponibile all’Istituzione designata dall’Autorità competente dello Stato membro in cui è svolta l’attività, le informazioni relative alla legislazione applicabile per detta persona.
Dopo di che, l’Istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione diventa applicabile, informa l’interessato e, se del caso, il suo o i suoi datori di lavoro, degli obblighi previsti da tale legislazione (inclusi: termini, condizioni, date di decorrenza, versamenti contributivi, scadenze da rispettare etc.). Essa fornisce loro tutto l’aiuto necessario per il corretto e completo espletamento delle formalità richieste dalla normativa interna.
Spetta ai vari Governi nazionali assicurare che le loro Istituzioni siano informate e applichino tutte le disposizioni dell’Unione, legislative o non legislative, comprese le eventuali decisioni della Commissione Amministrativa, nei settori e alle condizioni previste dai due Regolamenti in questione (883/2004 e 987/2009).
Le questioni pregiudiziali
Il primo quesito concerne la validità del certificato A1; in particolare, la Corte è chiamata a pronunciarsi se detto certificato, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincoli non soltanto le Istituzioni dello Stato membro in cui l’attività è svolta, ma anche i giudici di tale Stato membro.
Sul punto, la Corte osserva che, a richiesta della persona interessata o del datore di lavoro, l’Istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione è applicabile, ne fornisce uno specifico attestato e indica, se del caso, fino a quale data e a quali condizioni.
Dopo di che, i documenti rilasciati dall’Istituzione di uno Stato membro che attestano la situazione di una persona ai fini dell’applicazione dei Regolamenti 883/2004 e 987/2009, nonché le certificazioni su cui si è basato il rilascio degli stessi, sono accettati dalle Istituzioni degli altri Stati membri, fintantoché essi non siano ritirati o dichiarati non validi dal medesimo Stato membro dal quale sono stati rilasciati.
Orbene, seppure la norma non menziona espressamente anche i giudici degli altri Stati membri interessati, detta disposizione stabilisce che siffatti documenti debbono comunque essere accettati, fintantoché essi non siano ritirati o dichiarati non validi dallo Stato membro in cui sono stati rilasciati, il che tende a suggerire che, in linea di principio, solo le Autorità e i giudici dello Stato membro emittente possono, se del caso, ritirare o dichiarare non validi i certificati A1.
Ad avvalorare tale interpretazione, la Corte cita due propri precedenti (riguardo al certificato E 101, che ha preceduto il certificato A1), nei quali era già stato affermato che il carattere vincolante del primo certificato rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro conformemente all’allora vigente Regolamento, vincolava tanto le Istituzioni quanto i giudici dello Stato membro in cui era svolta l’attività (C-2/05; C-620/15).
Ciò detto, avuto anche riguardo alla previsione di cui all’articolo 12, del Regolamento 987/2009, il quale stabilisce che le misure e le procedure previste, risultano, tra l’altro, pure dalla Giurisprudenza della Corte, ne deriva che debba necessariamente concludersi come sopra; vale a dire, nel senso che il certificato A1 vincola, fino a che non sia disatteso dallo Stato membro che lo ha emesso, anche i giudici degli altri Stati membri interessati.
A fortiori, si deve, tra l’altro, evidenziare che, se il legislatore dell’Unione, al momento dell’adozione del nuovo Regolamento 987/2009, avesse inteso discostarsi dalla Giurisprudenza precedente al riguardo, affinché i giudici dello Stato membro in cui l’attività è svolta non fossero vincolati ai certificati A1 rilasciati in un altro Stato membro, avrebbe potuto (e dovuto) facilmente prevederlo in modo espresso.
Inoltre, se, al di fuori dei casi di frode o di abuso di diritto, si ammettesse che l’Istituzione nazionale competente può, rivolgendosi a un giudice dello Stato membro che ospita il lavoratore interessato e a cui essa appartiene, far dichiarare invalido un certificato A1, il sistema basato sulla leale collaborazione tra gli organi competenti degli Stati membri rischierebbe di essere compromesso.
La seconda questione pregiudiziale è suddivisa in due parti.
- Con la prima parte, il Giudice del rinvio chiede sostanzialmente se un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincoli sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta, sia i giudici di tale Stato membro, fintantoché tale certificato non sia stato né ritirato, né dichiarato non valido dallo Stato membro in cui esso è stato rilasciato, anche qualora le Autorità competenti di quest’ultimo Stato membro e dello Stato membro in cui l’attività è svolta, abbiano deferito la questione alla Commissione Amministrativa, e questa abbia concluso che detto certificato era stato rilasciato erroneamente e doveva essere ritirato.
Preliminarmente, sulla ricevibilità della pregiudiziale, la Corte dà atto che il Governo ungherese sostiene trattarsi di questione ipotetica, in quanto, nel caso di specie, la Commissione Amministrativa ha trovato una soluzione che è stata accettata sia dalla Repubblica d’Austria sia dall’Ungheria, e le Autorità ungheresi hanno conseguentemente affermato di essere disposte a ritirare i certificati A1 in discussione.
Cionondimeno, spetta esclusivamente al Giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolarità del caso di specie, tanto la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, se le questioni sollevate vertono sull’interpretazione o sulla validità di una norma di diritto dell’Unione, la Corte è, in via di principio, tenuta a statuire sempre (C-304/16).
Ne consegue che le questioni vertenti sul diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora risulti in modo manifesto che l’interpretazione o l’esame di validità richiesto relativamente a una norma dell’Unione, non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto della controversia nel procedimento principale; oppure, qualora il problema sia di natura ipotetica, o anche quando la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni che le vengono sottoposte (C-304/16).
Ora, seppure, nel caso di specie, è vero che dal fascicolo a disposizione della Corte risulta che la Commissione Amministrativa si sia pronunciata nel senso che i certificati A1 in questione non dovevano essere rilasciati e andavano ritirati, è altrettanto pacifico che tali certificati non sono in realtà stati ritirati dall’Istituzione competente in Ungheria, né dichiarati non validi dai giudici ungheresi.
Risulta, inoltre, sempre in atti, che la Repubblica d’Austria e l’Ungheria non sono giunte a un accordo sulle modalità di un eventuale ritiro di detti certificati, o, quantomeno, di alcuni di essi. Anzi, parrebbe emergere che l’applicazione di detto parere è stata sospesa in considerazione del presente procedimento pregiudiziale nel cui ambito il governo ungherese sostiene, in particolare, che correttamente è stata l’Istituzione ungherese quella che aveva la competenza al rilascio dei certificati A1.
Tutto ciò considerato, la circostanza che l’Ungheria, almeno in linea di principio, abbia dato il proprio accordo alla conclusione cui è pervenuta la Commissione Amministrativa, non incide affatto sulla rilevanza di detta questione ai fini della soluzione del procedimento principale. Inoltre, il fatto che la Commissione Amministrativa sia giunta alla conclusione che i certificati A1 in questione dovevano essere ritirati, non può di per sé giustificare l’irricevibilità della presente questione pregiudiziale, poiché quest’ultima riguarda appunto se tale conclusione possa incidere sul carattere vincolante di detti certificati nei confronti delle Autorità e dei giudici dello Stato membro in cui l’attività è svolta.
Pertanto, non si può ritenere che la prima parte della seconda questione sia ipotetica, e nulla osta alla sua ricevibilità da parte della Corte.
Entrando nel merito, il Collegio lussemburghese ricorda che la Commissione Amministrativa è incaricata, in particolare, di trattare ogni questione amministrativa e di interpretazione derivante dalle disposizioni dei Regolamenti di riferimento, o di ogni altro accordo concluso, o che dovesse intervenire nell’ambito dei Regolamenti stessi, fatto salvo il diritto delle Autorità, delle Istituzioni e delle persone interessate, di far ricorso alle procedure e alle giurisdizioni previste dalla legislazione degli Stati membri, dai Regolamenti medesimi, o dal trattato.
La Commissione Amministrativa è anche incaricata, da un lato, di promuovere e di sviluppare la collaborazione tra gli Stati membri e le loro Istituzioni in materia di sicurezza sociale al fine, in particolare, di tenere conto dei problemi specifici di alcune categorie di persone, e, dall’altro, di agevolare, nel settore del coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, la realizzazione di azioni di cooperazione transfrontaliera.
Per quanto concerne specificamente una situazione, come quella di cui trattasi, in cui sia sorta una controversia tra l’Istituzione competente di uno Stato membro e quella di un altro Stato membro in merito ai documenti o alle certificazioni, è poi espressamente indicata una particolare procedura da seguire ai fini della soluzione di tale controversia.
Ove, la Commissione Amministrativa non riesca a conciliare le diverse posizioni degli organi competenti in merito alla legislazione applicabile, lo Stato membro nel cui territorio il lavoratore interessato svolge un’attività lavorativa ha quanto meno facoltà, senza pregiudizio degli eventuali rimedi giurisdizionali esistenti nello Stato membro a cui appartiene l’organo emittente, di promuovere un procedimento per inadempimento, al fine di consentire alla Corte di esaminare, nell’ambito di un tale ricorso, la questione della legislazione applicabile a detto lavoratore e, di conseguenza, l’esattezza delle indicazioni figuranti nel certificato rilasciato (C-620/15).
In sostanza, il ruolo della Commissione Amministrativa nell’ambito della procedura, come voluto dal Legislatore comunitario, è di fatto solo circoscritto a conciliare i diversi punti di vista delle Autorità competenti degli Stati membri che le hanno sottoposto la questione; vale a dire: una sorta di parere consultivo tecnico.
Tale rilievo non è affatto inficiato dalla disposizione del Regolamento 987/2009, la quale prevede che le Autorità competenti provvedano a che le loro Istituzioni siano informate e applichino tutte le disposizioni dell’Unione, legislative o non legislative, comprese le decisioni della Commissione Amministrativa, posto che detta disposizione non è in alcun modo finalizzata a modificare il ruolo della Commissione Amministrativa nell’ambito della procedura cui fa riferimento il punto precedente, e, quindi, il valore di “parere” che rivestono le conclusioni cui tale Commissione giunge nel contesto della procedura medesima.
La Corte, pertanto, conclude affermando che:
“Un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincola sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta sia i giudici di tale Stato membro, fintantoché tale certificato non sia stato né ritirato né dichiarato non valido dallo Stato membro in cui esso è stato rilasciato, quand’anche le Autorità competenti di quest’ultimo Stato membro e dello Stato membro in cui l’attività è svolta, abbiano deferito la questione alla Commissione Amministrativa, e questa abbia concluso che detto certificato era stato rilasciato erroneamente e avrebbe dovuto essere ritirato.”
- Quanto alla seconda parte della predetta questione pregiudiziale, il Giudice del rinvio chiede sostanzialmente se un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincola sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta sia i giudici di tale Stato membro, se del caso, con effetto retroattivo, quand’anche tale certificato sia stato rilasciato solo dopo che detto Stato membro aveva accertato l’assoggettamento del lavoratore interessato all’assicurazione obbligatoria ai sensi della propria legislazione.
Tale questione riveste notevole importanza pratica, posto che alcuni Ordinamenti interni impongono il rilascio del certificato A1, necessariamente prima dell’inizio del distacco, seppure la norma comunitaria non parli affatto di un obbligo in tal senso.
Anche qui, preliminarmente, sulla ricevibilità, la Corte rileva che il Governo ungherese sostiene l’ipoteticità della questione, poiché nessun certificato A1 è stato emesso retroattivamente dopo che le Autorità austriache avevano accertato l’assoggettamento dei lavoratori interessati all’assicurazione obbligatoria ai sensi della legislazione austriaca.
Peraltro, secondo le indicazioni fornite nella decisione di rinvio, alcuni dei certificati A1 di cui trattasi, sono stati in realtà emessi retroattivamente. Da tale decisione risulta, altresì, che l’Istituzione austriaca aveva già accertato la sussistenza di un obbligo di assicurazione di taluni dei lavoratori interessati in base alla legislazione austriaca, prima che l’Autorità competente ungherese emettesse i certificati A1 per tali lavoratori.
Orbene, secondo Giurisprudenza costante, spetta al Giudice nazionale accertare i fatti e valutare la rilevanza delle questioni che intende sottoporre (C-269/15; C-620/15).
Ne consegue che la seconda parte della seconda questione dev’essere considerata ricevibile, poiché, in base alle indicazioni fornite dal Giudice del rinvio, la risposta della Corte può essere utile a tale Giudice per determinare il carattere vincolante almeno di una parte dei certificati A1 di cui trattasi.
Passando, poi, al merito della questione, la Corte ricorda che il certificato può avere effetto retroattivo. In particolare, il rilascio di tale certificato, pur essendo preferibile che intervenga prima dell’inizio del periodo considerato, può anche essere effettuato nel corso di tale periodo, o persino dopo la sua scadenza (C-178/97).
Al di là della concreta fattispecie che qui ci occupa, tale precisazione della Corte – come detto – giunge quanto mai opportuna, atteso che la maggior parte delle normative interne (inclusa quella italiana) prevedono, in caso di intempestiva richiesta (e, conseguente, rilascio) del certificato, un variegato apparato sanzionatorio, e, in taluni casi, finanche l’illegittimità del distacco. Orbene, seppure nulla la Corte affermi riguardo alle eventuali sanzioni amministrative all’uopo eventualmente previste dagli Ordinamenti nazionali, che dunque continuano a sembrare difficilmente contestabili in punta di diritto interno, resta il fatto che la validità del documento ai fini del distacco appare a questo punto indiscutibile, e, contrariamente – a esempio – a quanto indicato pure nell’ultima circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (1/2017), tale mancanza fine a sé stessa non potrà in alcun caso configurare come conseguenza un distacco illegittimo.
Ritornando alla causa che qui ci occupa, in particolare, è vero che la norma di riferimento, nella sua versione ratione temporis, disponeva che, qualora la persona esercitasse un’attività in uno Stato membro diverso dallo Stato membro competente, il datore di lavoro o l’interessato, ne informava, se possibile preventivamente, l’Istituzione competente dello Stato membro la cui legislazione è applicabile; e che tale Istituzione, senza indugio, rendeva disponibili alle parti, le informazioni relative a detta legislazione applicabile. Tuttavia, il rilascio di un certificato A1 durante, o anche dopo, la fine del periodo di lavoro di cui trattasi, rimane possibile.
Quanto, in particolare, all’applicazione retroattiva, resta valido il principio generale (già prima ricordato), in forza del quale, fintantoché non sia ritirato o dichiarato non valido, un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincola, al pari del suo predecessore (certificato E 101), tanto le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta, quanto i giudici di tale Stato membro.
Per altro verso, non si può ritenere che la decisione con la quale, l’Istituzione competente dello Stato membro in cui l’attività è svolta, assoggetta i lavoratori in questione all’assicurazione obbligatoria ai sensi della propria legislazione, costituisca una valida contraria attestazione rispetto al certificato A1 rilasciato.
Occorre, poi, pure aggiungere che, a mente del Regolamento 987/2009, le norme di conflitto adottate in via provvisoria si applicano solo salva disposizione contraria dello stesso Regolamento.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la Corte conclude che
“Un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro, vincola sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta, sia i giudici di tale Stato membro, se del caso, con effetto retroattivo, quand’anche tale certificato sia stato rilasciato solo dopo che detto Stato membro aveva accertato l’assoggettamento del lavoratore interessato all’assicurazione obbligatoria ai sensi della propria legislazione.”
Nella terza questione, il Giudice del rinvio chiede se, nel caso in cui un lavoratore, distaccato dal datore di lavoro per effettuare un lavoro in un altro Stato membro, sia sostituito da un altro lavoratore distaccato da un ulteriore datore di lavoro, quest’ultimo lavoratore dev’essere considerato «inviato in sostituzione di un’altra persona», ai sensi di tale disposizione, così da non poter beneficiare della norma particolare prevista in detta disposizione al fine di continuare a essere assoggettato alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro esercita abitualmente le sue attività.
Detto Giudice chiede, altresì, se il fatto che i datori di lavoro dei due lavoratori interessati abbiano la loro sede nello stesso Stato membro, o, se il fatto che essi intrattengano eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo, siano fattori rilevanti al riguardo.
Preliminarmente, sulla ricevibilità, la Corte rileva che uno dei Governi interessati sostiene l’ipoteticità della questione, giacché viene posto un quesito relativamente a una situazione non esistente. Si tratterebbe di verificare se il fatto che il secondo datore di lavoro abbia la propria sede in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede il primo datore di lavoro, sia rilevante ai fini della risposta da fornire alla questione sollevata, quando invece i due datori di lavoro in questione hanno sede nel medesimo Stato membro.
La Corte – rifacendosi anche a quanto appena esposto relativamente a simile eccezione sul precedente quesito – ricorda che una parte di tale questione riguarda la circostanza che le sedi dei datori di lavoro di cui trattasi si trovano nello stesso Stato membro; circostanza che corrisponde ai fatti del procedimento principale. Pertanto, il quesito non può essere considerato ipotetico ed è pienamente ricevibile.
Passando nel merito, i Giudici lussemburghesi osservano innanzitutto che, secondo costante Giurisprudenza, il procedimento generale (ex articolo 267 TFUE) costituisce uno strumento di cooperazione tra la Corte e i Giudici nazionali, per mezzo del quale la prima fornisce ai secondi gli elementi di interpretazione del diritto dell’Unione, necessari per risolvere le controversie pendenti.
Nello specifico, dato che la terza questione pregiudiziale verte sulla portata della norma, in base alla quale, per poter continuare a essere soggetta alla legislazione dello Stato membro in cui il datore di lavoro svolge abitualmente le sue attività, la persona distaccata non dev’essere stata «inviata in sostituzione di un’altra persona» (c.d. «condizione di non sostituzione»), tale questione inevitabilmente riguarda l’oggetto stesso del procedimento principale. Infatti, il Giudice del rinvio intende accertare quale interpretazione, tra quelle sostenute dai due Stati membri che hanno sottoposto la loro controversia alla Commissione Amministrativa, dovrebbe essere privilegiata, poiché, come risulta dal fascicolo sottoposto alla Corte, le loro interpretazioni contraddittorie in merito alla portata della condizione di non-sostituzione sono all’origine della controversia che contrappone le parti nel procedimento principale riguardante la legislazione applicabile ai lavoratori di cui trattasi.
Inoltre, il Governo austriaco in particolare sostiene che non si può escludere che, per alcuni dei numerosi lavoratori interessati, l’Istituzione competente ungherese non abbia rilasciato alcun certificato E 101 o A1 e che, di conseguenza, l’interpretazione della condizione di non-sostituzione sia direttamente rilevante ai fini della soluzione del procedimento principale nei confronti di tali lavoratori.
Nelle anzidette circostanze, sebbene il Giudice del rinvio sia vincolato ai certificati A1, fintantoché questi non siano stati ritirati dall’Istituzione competente ungherese o dichiarati non validi dai giudici ungheresi, la Corte ritiene comunque doveroso rispondere pure allo specifico quesito, onde fornire un’interpretazione successivamente applicabile dai vari giudici nazionali in eventuali future controversie che concernano simili ipotesi di contrasto.
Venendo, alla fattispecie per cui è causa, risulta che alcuni lavoratori della Martin-Meat sono stati distaccati in Austria nel periodo compreso tra il 2007 e il 2012 per effettuare operazioni di sezionamento di carni nei locali dell’Alpenrind. Dal 1° febbraio 2012 al 31 gennaio 2014 incluso, determinati lavoratori della Martimpex sono stati distaccati in Austria per effettuare le stesse operazioni. A partire dal 1° febbraio 2014, altri dipendenti della Martin-Meat hanno nuovamente realizzato detti lavori nei medesimi locali.
Occorre, quindi, esaminare se la condizione di non-sostituzione sia rispettata in un caso come quello di specie durante il periodo controverso, nonché, se, e in quale misura, l’ubicazione delle sedi dei datori di lavoro interessati, o l’esistenza di eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo tra questi ultimi, siano rilevanti in un contesto del genere.
Ai fini dell’interpretazione di una norma di diritto dell’Unione, non si deve tenere conto soltanto del suo tenore letterale, ma anche del contesto e degli scopi perseguiti dal quadro legislativo di cui fa parte (C-616/15).
Ora, per quanto concerne il tenore dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento 883/2004, quale si applicava all’inizio del periodo controverso, quest’ultimo stabiliva che «la persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro per conto di un datore di lavoro che vi esercita abitualmente le sue attività ed è da questo distaccata per svolgervi un lavoro per suo conto in un altro Stato membro, rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona».
Di conseguenza, il fatto stesso che un lavoratore distaccato sostituisca un’altra persona, osta a che tale lavoratore sostitutivo possa continuare a essere soggetto alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro svolge abitualmente le sue attività, e che la condizione di non-sostituzione si applica cumulativamente a quella, anch’essa prevista in detta disposizione, relativa alla durata massima del lavoro in questione.
Sul punto, giova richiamare un momento l’attenzione del lettore relativamente a quanto indicato nel paragrafo introduttivo del presente elaborato, relativamente all’ultima Direttiva 2018/957:
“Viene diminuito il periodo massimo del distacco, da 24 mesi a 12 mesi; dopo i primi 12 mesi (eventualmente, estendibili fino a 18, con notifica motivata del prestatore di servizi), al lavoratore distaccato verranno applicate le condizioni di lavoro e di occupazione previste dallo Stato membro ospitante restando solo escluse, per espressa volontà del Legislatore, le procedure, le formalità e le condizioni per la conclusione e la cessazione del contratto, le clausole di non concorrenza e i regimi pensionistici integrativi di categoria. Ciò significa che, trascorso tale periodo, al lavoratore distaccato si applicherà la normativa contributiva dello Stato membro distaccatario (e non più quella dello Stato membro di invio). Al fine, poi, di evitare un uso distorto del distacco, nel caso in cui il lavoratore distaccato sia sostituito da un altro lavoratore, il periodo di 12 mesi (o 18 mesi) dovrà essere calcolato sommando i periodi di ciascun lavoratore.” (cfr. la situazione attuale, punto iv).
Quanto, poi, alle sedi dei rispettivi datori di lavoro o agli eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo esistenti tra loro, il mancato espresso riferimento, nel testo di detta disposizione, a tali fattori, non può che lasciare intendere che circostanze del genere non siano rilevanti ai fini dell’interpretazione della medesima disposizione.
Da altro verso, esaminando il contesto normativo in cui si colloca la disposizione in parola, va osservato che le norme ivi previste costituiscono «norme particolari», relative alla determinazione della legislazione in materia di sicurezza sociale applicabile. Dunque, si può affermare che, in via generale, la legislazione applicabile alle persone che esercitano un’attività subordinata o autonoma nel territorio di uno Stato membro è quella di tale Stato membro; mentre, è necessario «derogare a detta norma generale» in situazioni specifiche che giustificano un altro criterio di applicabilità.
Da ciò ne consegue che, poiché la disposizione di cui trattasi costituisce un’eccezione alla norma generale che si applica al fine di determinare la legislazione in cui rientrano le persone che esercitano un’attività subordinata o autonoma in uno Stato membro, essa va interpretata restrittivamente.
Da un punto di vista più strettamente sostanziale, poi, occorre rilevare che, sebbene l’articolo in questione stabilisca una norma particolare per la determinazione della legislazione applicabile in caso di distacco dei lavoratori, e tale situazione specifica giustifichi, in linea di principio, un altro criterio di applicabilità, resta comunque il fatto che il Legislatore dell’Unione intendeva anche evitare che tale norma particolare potesse andare a vantaggio di lavoratori distaccati uno dopo l’altro per svolgere la stessa attività lavorativa.
Orbene, è palese che interpretare l’articolo in maniera difforme a seconda della sede rispettiva dei datori di lavoro interessati, o della sussistenza tra loro di legami sotto il profilo personale od organizzativo, potrebbe compromettere l’obiettivo perseguito dal Legislatore dell’Unione di assoggettare, in via di principio, il lavoratore alla legislazione dello Stato membro in cui l’interessato svolge la sua attività.
A monte dell’intero quadro normativo comunitario in materia di lavoro, è posto il principio generale della parità di trattamento di tutte le persone occupate nel territorio di uno Stato membro. Ergo, nell’ambito del coordinamento dei sistemi nazionali di sicurezza sociale, si deve garantire nel modo migliore la parità di trattamento delle persone occupate nel territorio del medesimo Stato membro.
Fatte tali premesse, il Collegio lussemburghese osserva come il reiterato ricorso a lavoratori distaccati per coprire lo stesso posto di lavoro, sebbene i datori di lavoro all’origine dell’iniziativa dei distacchi siano distinti, non è conforme al tenore letterale, né agli obiettivi dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento 883/2004, e non è nemmeno conforme al contesto in cui si colloca tale disposizione; pertanto, una persona distaccata non può beneficiare della norma particolare prevista in detta disposizione, qualora sostituisca un altro lavoratore.
Pertanto, nel rispondere al terzo quesito, la Corte afferma che:
“Nel caso in cui un lavoratore, che sia distaccato dal datore di lavoro per effettuare un lavoro in un altro Stato membro, sia sostituito da un altro lavoratore distaccato da un ulteriore datore di lavoro, quest’ultimo lavoratore dev’essere considerato «inviato in sostituzione di un’altra persona», ai sensi di tale disposizione, cosicché non può beneficiare della norma particolare prevista in detta disposizione al fine di continuare a essere assoggettato alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro esercita abitualmente le sue attività.
Il fatto che i datori di lavoro dei due lavoratori interessati abbiano la loro sede nello stesso Stato membro, o il fatto che essi intrattengano eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo, risulta irrilevante al riguardo.”
Pronunciandosi, infine, sulle spese del Giudizio, la Corte ricorda che nei confronti delle parti del procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al Giudice del rinvio. Pertanto, spetta a quest’ultimo statuire sulle spese.
Mentre, le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
Le risposte della Corte
Riassumendo, dunque, le indicazioni interpretative fornite dalla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo (Sezione Prima) in merito ai quesiti posti, sono le seguenti:
- Un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento 883/2004, vincola, non soltanto le Istituzioni dello Stato membro in cui l’attività è svolta, ma anche i Giudici di tale Stato membro.
- Un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento 883/2004, vincola, sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta, sia i Giudici di tale Stato membro, fintantoché tale certificato non sia stato, né ritirato, né dichiarato non valido dallo Stato membro in cui esso è stato rilasciato, quand’anche le Autorità competenti di quest’ultimo Stato membro e dello Stato membro in cui l’attività è svolta abbiano deferito la questione alla Commissione Amministrativa per il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, e questa abbia concluso che detto certificato era stato rilasciato erroneamente e avrebbe dovuto essere ritirato.
- Un certificato A1, rilasciato dall’Istituzione competente di uno Stato membro ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, del Regolamento 883/2004, vincola, sia le Istituzioni di sicurezza sociale dello Stato membro in cui l’attività è svolta, sia i Giudici di tale Stato membro, se del caso, con effetto retroattivo, quand’anche tale certificato sia stato rilasciato solo dopo che detto Stato membro aveva accertato l’assoggettamento del lavoratore interessato all’assicurazione obbligatoria ai sensi della propria legislazione.
- Nel caso in cui un lavoratore, che sia distaccato dal datore di lavoro per effettuare un lavoro in un altro Stato membro, sia sostituito da un altro lavoratore distaccato da un ulteriore datore di lavoro, quest’ultimo lavoratore dev’essere considerato «inviato in sostituzione di un’altra persona», e non può beneficiare della norma particolare prevista in detta disposizione al fine di continuare a essere assoggettato alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro esercita abitualmente le sue attività.
- Il fatto che i datori di lavoro dei due lavoratori interessati abbiano la loro sede nello stesso Stato membro, o il fatto che essi intrattengano eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo, sono elementi irrilevanti al riguardo.
Quanto agli effetti giuridici delle sentenze emesse dalla Corte, giova ricordare che il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione, o alla validità di un atto dell’Unione.
La Corte non risolve la controversia nazionale.
Pertanto, spetta poi al Giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte.
Ovviamente, tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.
Brevi osservazioni conclusive
Innanzitutto, sulla base di quanto riportato, vediamo di capire quali possono essere gli effetti pratici della sentenza.
Parrebbe, infatti, contraddittorio affermare che:
A) da un lato, il certificato A1 è comunque valido, anche retroattivamente (fino a che non venga effettivamente ritirato dall’Istituzione nazionale che lo ha emesso), e dunque è sempre legittimo il distacco che viene con esso attestato (legislazione applicabile nel Paese del datore di lavoro distaccante etc.);
B) dall’altro lato, è stata violata la clausola di “non-sostituzione”, pertanto i lavoratori interessati dal problema, non possono beneficiare della suddetta normativa di favore.
A parere di chi scrive, detta presunta contraddizione è, peraltro, solo apparente.
Partendo, infatti, dal presupposto che la Corte esprime delle interpretazioni di carattere generale in ossequio alla legislazione comunitaria, occorre preliminarmente osservare che, all’interno della complessa causa che ci occupa, l’ipotesi B) riguarda solo una parte dei lavoratori; e, dunque, non inficia necessariamente l’intero postulato giuridico indicato nell’interpretazione di cui al capo A).
Secondariamente, come osserva la stessa Corte:
“Il Giudice del rinvio è vincolato ai certificati A1, fintantoché questi non siano stati ritirati dall’Istituzione competente ungherese o dichiarati non validi dai giudici ungheresi”.
Il potere, dunque, di disconoscere la validità dei certificati, non spetta solo all’Istituzione emittente, ma anche al Giudice dello stesso Stato membro cui appartiene detta Istituzione.
Orbene, atteso che gli effetti giuridici delle sentenze emesse dalla Corte (come testé ricordato), consentono ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di decidere sulla base dell’interpretazione del diritto dell’Unione fornita, indipendentemente dalla circostanza che (anche successivamente alla decisione europea), l’Istituzione intervenga subito a invalidare i certificati A1 in questione, spetterà allo stesso Giudice nazionale ungherese il potere di disconoscere tali attestazioni direttamente nel pronunciare la sua decisione.
Né, d’altronde, come altresì ricordato dalla stessa Corte, sarebbe ipotizzabile investire di tale potere anche i giudici degli altri Stati membri eventualmente interessati, avuto riguardo agli imprescindibili principi di uniformità legislativa e, soprattutto, di collaborazione fra Governi, Istituzioni e giudici nazionali.
In conclusione, ci permettiamo solo un’ultima piccola considerazione di carattere generale.
Si è già detto riguardo alla fondamentale portata dell’interpretazione che la Corte fornisce in merito alla presunzione legale di validità (anche retroattiva), rappresentata dal rilascio (pure a posteriori) del certificato A1.
Ebbene, altrettanto rilevante (sempre sotto un’ottica di pratica applicazione interna) appare la precisazione relativa alla possibilità di sostituzione del lavoratore inviato in distacco, alla luce delle nuove previsioni indicate nell’ultima Direttiva 2018/957 (pur tenendo conto della futura data di entrata in vigore).
Peraltro, sul punto specifico, francamente ci sembra che il Legislatore comunitario potesse fare meglio. In effetti, seppure comprendiamo la necessità di porre dei limiti di tempo ben precisi, onde evitare un uso distorto della “sostituibilità” dei lavoratori in distacco, per contro, non possiamo sottacere la circostanza che esistano nella pratica svariati casi di distacchi nei quali, detti termini restrittivi mal si addicono al corretto sviluppo dell’istituto. E, con esso, alla piena ed effettiva applicazione dell’indiscutibile diritto di libera circolazione del lavoro e dei lavoratori all’interno della Comunità.
Inoltre, la legittimità del distacco, per sua natura, non sempre consente di predeterminarne con esattezza la durata, e, anzi, spesso necessita di svariate proroghe al fine di soddisfare l’unico interesse contrattualmente degno di tutela, vale a dire quello posto in capo al datore di lavoro distaccante.
Orbene, appare evidente come non sia infrequente nella pratica che uno stesso lavoratore possa non essere più in condizione di continuare a essere distaccato, pur permanendo l’interesse al distacco del datore di lavoro distaccante. A parte le altre possibili motivazioni di carattere strettamente personale, si pensi solo, a esempio, al fatto che:
- il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato;
- il distacco che comporti un trasferimento a un’unità produttiva sita a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è adibito può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
Ragion per cui, la facoltà di provvedere a detta sostituzione, andando anche al di là dei nuovi e più ristrettivi termini imposti dalla Direttiva in questione, non solo non dovrebbe mai prefigurare un’ipotesi di distacco illecito, ma, al contrario, potrebbe semmai rappresentare un indice ulteriore d’aiuto in mano agli organi verificatori al fine di accertare la reale genuinità e legittimità del distacco stesso.