Paolo Soro

Dai braccialetti alle manette, il passo è breve

Prendiamo spunto dalle polemiche scoppiate in merito ai braccialetti elettronici che Amazon parrebbe intenzionata a mettere ai polsi di molti dei suoi dipendenti, per fare chiarezza e offrire alcune riflessioni che vanno ben al di là di facili e insulse strumentalizzazioni politiche.

“Braccialetti luminosi – Durata garantita!”

Questo è lo slogan che utilizza Amazon per vendere sulla sua piattaforma e-commerce alcuni braccialetti. Purtroppo, però, non si tratta di quelli potenzialmente in predicato di cingere i polsi dei lavoratori. “Purtroppo”, perché quel “durata garantita” non sarebbe affatto dispiaciuto a dei dipendenti che sono ormai abituati a convivere con la precarietà del loro impiego.

Ma, innanzitutto, cerchiamo di capire meglio di che si tratta.

Lo scorso 30 gennaio, è stata riconosciuta la validità di due brevetti che Amazon aveva depositato in data 28 marzo 2016: una sorta di braccialetto elettronico che, posizionato al polso dei magazzinieri, guiderebbe il lavoratore nell’immediato reperimento della merce, evitando errori e consentendogli di agire a mani libere; senza, cioè, dover usare gli attuali strumenti di scannerizzazione e lettura digitale dei codici a barre per le operazioni di carico/scarico. I braccialetti si triangolerebbero con dei sensori sugli scaffali dei prodotti in modo da sapere immediatamente se i dipendenti hanno preso il giusto prodotto dalla mensola: una vibrazione o un allarme sonoro farebbero subito capire al dipendente che lo indossa l’eventuale errore (verifica che, ora, viene fatta solo successivamente con altri sistemi di controllo automatici).

Ebbene: il primo dei due brevetti depositati fonda il funzionamento dei braccialetti in questione sulla tecnologia degli ultrasuoni; il secondo, invece, dovrebbe agire appoggiandosi a un sistema di radiofrequenze. A giudizio degli esperti della materia, però, solo il primo meccanismo appare in realtà utilizzabile con successo; atteso che, per caratteristiche operative ambientali, il sistema a radiofrequenza non sembra poter perseguire l’obiettivo, né assicurare ogni necessaria precisione.

Premesso quanto sopra, occorre tenere sempre presente che:

-          Solo una bassissima percentuale dei brevetti depositati dalle grandi aziende, hanno poi una successiva concreta attuazione pratica, poiché le motivazioni che spingono al deposito del singolo brevetto possono essere di vario tipo (esempio: avvantaggiarsi sulla concorrenza, precedendola), e perché spesso quello che in teoria appare economicamente utile, all’atto pratico si dimostra eccessivamente dispendioso, per cui il gioco non vale la candela

-          Laddove i vertici dell’azienda dovessero dare il via libera al progetto, i tempi non sarebbero di certo brevi, considerata la naturale obbligatoria fase di sperimentazione, verifica dei costi effettivi, eliminazione di inevitabili difetti o malfunzionamenti, e così via.

Cionondimeno, in Italia è tempo di elezioni e qualunque cavallo possa presumibilmente arrecare vantaggi elettorali deve essere immediatamente cavalcato dai politici di turno. Sono così scoppiate le polemiche basate sulla solita disinformazione, che non hanno consentito di fare chiarezza e (quel che è peggio) hanno deviato l’attenzione dell’opinione pubblica rispetto alle reali problematiche che davvero affliggono i lavoratori.

Secondo taluni, i braccialetti servirebbero in realtà solo per sapere cosa fanno i dipendenti e verificarne la produttività individuale, violandone la privacy: l’esempio addotto sarebbe quello dei sistemi in uso negli Stati Uniti per accertare gli spostamenti dei detenuti in libertà vigilata. Questa critica, oltre che infondata, appare finanche risibile.

La normativa italiana è molto stringente per quanto concerne il controllo a distanza della manodopera da parte dei superiori gerarchici, anche presso i luoghi di lavoro. Ciononostante, è indubbio che già attualmente (ossia, ben prima che i potenziali braccialetti di Amazon possano venire adottati) esistono svariate aziende che di fatto monitorano regolarmente la produttività della forza lavoro tramite chip elettronici o altri strumenti tecnologici. In ogni caso, le possibilità offerte oggigiorno dalla tecnologia per verificare gli spostamenti dei lavoratori e il loro grado di produttività sono talmente ampie, che Amazon (azienda tecnologicamente all’avanguardia), per farlo, non ha certo bisogno di servirsi di metodi così farraginosi, dispendiosi, invisi e – soprattutto – forieri di ulteriore malcontento.

Ogni singolo movimento è già ora regolarmente monitorato. Quando un lavoratore usa la pistola scanner in dotazione, il suo nome viene automaticamente associato all’apparecchio: in questo modo il management ha piena e giornaliera contezza circa tempi e produttività. Se non si tiene il passo coi ritmi di lavoro richiesti, l’azienda interviene.

Per cui, quello che i suddetti politici interessati, falsi paladini dei lavoratori, nella loro ignoranza, non hanno compreso è che imbastire polemiche sterili e prive di sostanza su delle false preoccupazioni, non aiuta ma semmai danneggia le ragioni dei lavoratori, distogliendo l’attenzione di tutti da quelli che sono i loro veri problemi che concernono piuttosto le generali condizioni di lavoro.

Stress, ansia, affaticamento, orari, tempistiche, metodi, rispetto delle scadenze e via discorrendo, si ripercuotono inevitabilmente sulla salute psico-fisica dei lavoratori. Inoltre, regole di condotta particolarmente rigide (dal divieto di parlare coi colleghi, all’uso del bagno con molta moderazione e solo se giustificato, al tempo massimo richiesto di 30 secondi per imballare un pacchetto) di certo non aiutano. Non ultimi, poi, vi sono i problemi concernenti la “job rotation” evidenziati dai sindacati del centro di smistamento Amazon di Piacenza: pause brevi, turni su sette giorni, anche notturni (si lavora fino a 10 ore consecutive). Il tutto con salari minimi tra l’altro legati al CCNL del terziario, quando viceversa parrebbe corretta l’applicazione dei contratti relativi al settore della logistica.

C’è chi pensa che bisognerebbe solo ringraziare Amazon per i posti di lavoro che offre in un Paese come il nostro afflitto dalla disoccupazione; e, coloro ai quali non sta bene, possono sempre andarsene.

Purtroppo, le cose non sono così facili quando hai una famiglia a casa che ti aspetta, un affitto da pagare, bollette, figli da mantenere etc. Non necessariamente tutti quelli che si lamentano lo fanno perché non hanno voglia di lavorare. Certo, per carità, esiste anche questo genere di dipendenti. Ma il punto è che, nel 2018, non bisognerebbe ancora logorarsi e distruggersi pur di lavorare. Gli anni della schiavitù (metaforicamente parlando) e dello sfruttamento dovrebbero essere abbondantemente finiti. Se i luoghi di lavoro fungono da cartina di tornasole per misurare il livello di civiltà e cultura sociale di un Paese, possiamo tranquillamente affermare che stiamo regredendo e non certo progredendo.

Pertanto, nel caso di specie, diremmo che semmai dovrebbe essere Amazon a ringraziare lo Stato e i cittadini italiani, per avere la possibilità di spremere e sfruttare sia il primo (come diremo meglio subito oltre) che i secondi.

Ci sembra emblematico riportare il virgolettato da un video girato a opera di un giornalista inglese infiltrato nel reparto logistica della società:

“Sono in una gabbia chiusa a chiave; un robot si avvicina nell'ombra e spinge verso di me una torre di scaffali. Ho 9 secondi per afferrare ed elaborare un articolo da spedire per l'imballaggio: ho un obiettivo di 300 articoli all'ora. Le telecamere controllano ogni mia mossa. Lo schermo davanti a me mi ricorda costantemente le unità da imballare e quanti secondi ci sto mettendo nel farlo”.

Nei film vediamo tante sceneggiature relative ad androidi che cercano disperatamente di umanizzarsi. Forse dovrebbero incominciare a scriverne seriamente anche qualcuna sugli uomini che vengono sempre più robotizzati.

Ciò che conta è solo l’utile, dunque:

-          Produttività e profitto!

Il moderno credo dei giovani manager formati nelle rinomate business school trova – per così dire – la sua massima espressione presso le “catene”. E Amazon rappresenta sicuramente il top di queste tipologie di aziende. La società è diventata un gruppo mondiale di proporzioni talmente grandi, da far salire il suo CEO e fondatore, Jeff Bezos, sul podio degli uomini più ricchi al mondo. Gli ultimi rendiconti pubblicati testimoniano il raddoppio degli utili, con un attivo che per la prima volta ha superato il miliardo di dollari. Un inevitabile interrogativo che, allora, si pone è il seguente:

-          Quante di queste riserve finanziarie sono state create sfruttando e/o eludendo la normativa fiscale internazionale?

Il colosso americano del commercio online fattura oltre 50 miliardi di dollari all’anno e ha diverse società in Italia, le cui quote sono di proprietà, al 100%, della Amazon Eu Sarl (holding lussemburghese). Secondo quanto Amazon ha sempre sostenuto, le filiali italiane sarebbero solo dei magazzini e dei depositi di merce, dove i lavoratori eseguono meri servizi su ordine e conto della società-madre lussemburghese, così non configurandosi (in relazione alla normativa fiscale) alcuna permanent establishment (stabile organizzazione). Per ciò stesso, in sostanza, anche le imposte su quella parte di redditi indubitabilmente prodotti in Italia sulla base dell’applicazione del Nexus Approach, vengono invece materialmente pagate in Lussemburgo, dove vigono aliquote assai inferiori e – soprattutto – dove Amazon è riuscita ad attivare un’importante azione di ruling fiscale internazionale.

Ebbene, almeno una di queste quattro società italiane (Amazon Italia Logistica), sembrerebbe viceversa condurre una vera e propria attività di gestione del business italiano, e non dei semplici servizi meramente operativi. L’azienda, in effetti, ha alle sue dipendenze circa 1.000 lavoratori assunti con contratti italiani (non si comprende perché afferenti il settore del terziario), i quali prendono gli ordini e li spediscono in gran parte a clienti sempre italiani. Stando così le cose, ai più parrebbe che l'attività e gli affari sarebbero in Italia, e quindi i redditi (perlomeno quelli connessi a tale parte di attività) dovrebbero essere assoggettati a tassazione nel Belpaese (IRES-IRAP). Amazon, però, non versa praticamente nulla al Fisco italiano (fatto salvo, ovviamente, quanto derivante dalle transazioni infra-gruppo in entrata dal Lussemburgo verso l’Italia). Il management societario, infatti, ha dichiarato che la parte italiana è meramente esecutiva in funzione di ciò che viene gestito dal Lussemburgo, dove invece vi è tutta l'attività strategica del gruppo e vengono effettivamente conclusi i contratti. Le politiche di prezzo, così come le politiche di distribuzione, restano sempre integralmente decise in Lussemburgo. I dipendenti italiani, quindi, non sono soggetti che decidono, ma solo che eseguono. Mancherebbe, insomma, quell’autonomia decisionale, peculiarità indispensabile per qualificare la stabile organizzazione italiana.

Si ricorda che, in base al Modello OCSE, l’espressione “concludere contratti in nome della casa madre” implica la capacità di impegnare l’impresa di fronte a terzi. Tale potere deve comunque manifestarsi attraverso l’offerta di beni e servizi sul mercato. La conclusione di un contratto di lavoro dipendente – per esempio – non è di per sé sufficiente per configurare l’esistenza di una Stabile Organizzazione, in quanto non è espressione definitiva circa l’autonomo svolgimento di un’attività imprenditoriale.

Tirando le somme, dunque, Amazon Italia si dichiara azienda logistica di fronte al Fisco per non rischiare di essere qualificata come stabile organizzazione; salvo poi in materia di lavoro applicare ai suoi dipendenti il (per lei, complessivamente, più favorevole) CCNL del terziario e commercio.

Fa comunque riflettere, osservare che da una parte, abbiamo delle micro-società, senza nemmeno del personale, che devono pagare IRES e IRAP; dall’altra, nello stesso territorio, lavora il colosso Amazon, con svariate società, più di 1.000 dipendenti, oltre un miliardo di traffico merci, che non ha alcun obbligo di versare imposte in Italia.

Cionondimeno, molti uffici fiscali del vecchio continente (sotto il costante monito della Commissione UE) hanno azionato una serie di verifiche che creano non poco “imbarazzo” a Mr. Bezos, il quale – stando almeno agli ultimi rumors – avrebbe deciso di sborsare 100 milioni di euro a titolo transattivo per risolvere il contenzioso italiano e altri 200 per far contento il Fisco francese. Tutto sommato, quisquilie e pinzillacchere (direbbe Totò) se solo si pensa al ricordato miliardo di attivo maturato nell’ultimo anno.

Orbene, le anzidette circostanze, di per sé sole, meriterebbero di essere valutate sotto un profilo etico. Con ciò, però, non vorremo essere fraintesi: il problema non è (tanto e solamente) l’orco cattivo Amazon; quanto piuttosto un sistema mondiale che, nel nome della massimizzazione dei profitti, ha completamente smarrito ogni considerazione delle persone.

In questa sede, ci interessa spingere il Lettore a riflettere attentamente in funzione di una visione globale che impone oggettivi giudizi di ordine morale:

-          Perché le scoperte tecnologiche sono sempre più spesso mirate e utilizzate per penalizzare il lavoro dell’uomo e peggiorarne la condizione, quando dovrebbero e potrebbero essere viceversa sfruttate per recargli ulteriori e maggiori benefici?

Le persone sono il fine; non il mezzo. Kant correttamente afferma che dobbiamo trattare gli altri, come vorremmo che loro trattassero noi. Non si tratta di retorica, ma di basilari precetti etici.

La vera grande domanda da porsi è la seguente:

-          Dove stiamo andando?

Dal punto di vista economico, è oggettivamente indubbio che società come Amazon rappresentino un modello da seguire per innovazione, dinamicità, capacità di produrre utili e lavoro a livello mondiale. Seppure sia altrettanto indubbio che nel contempo costituiscono pure delle vere e proprie anomalie per il “libero mercato”. Difficile, infatti, presupporre una libertà imprenditoriale, allorquando le ordinarie falle del mercato globale sono facilmente sfruttate dai gruppi più forti per operare sostanzialmente in maniera oligopolistica a danno di tutte le altre entità economiche.

L’Unione europea non perde occasione di ribadire la necessità per ogni Paese membro di incentivare le imprese a focalizzare tutti i loro sforzi sulla continua ricerca tecnologica, divenuta principale volano di produttività e crescita economica.

In Italia, ormai non si parla altro che di industria 4.0 e il Legislatore ha varato normative tributarie di vantaggio come i recenti interventi in tema di iperammortamento e patent box. Il MISE, dal suo canto, si è attivato con strumenti tendenti a favorire le aziende che vogliano perseguire tali particolari obiettivi (esempio: i recentissimi voucher per la digitalizzazione).

Ci guarderemmo bene dal criticare questi provvedimenti o, in generale, il progredire verso nuovi e sempre più importanti orizzonti. Ma continuiamo a ritenere che gli uomini debbano essere sempre considerati come il fine ultimo di qualunque scoperta scientifica e non come semplici mezzi per ottenere esclusivi vantaggi di carattere patrimoniale. Il benessere delle persone non è un bene di consumo. Diversamente ragionando, non vi sarebbe in realtà alcun effettivo progresso, ma solamente un incontrollabile degrado della condizione umana.

Sia chiaro, la nostra non vuole essere la solita critica ideologica al sistema economico. Ciò che, però, ci sembra doveroso ricordare a tutti è la necessità di non perdere mai di vista, durante la continua ricerca della produttività a ogni costo, la fondamentale importanza di taluni basilari precetti etici, che ci contraddistinguono prima di tutto come esseri umani… affinché quei braccialetti non divengano davvero delle manette da cui non risulterà più possibile liberarsi.

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