Paolo Soro

Commercialista oggi

Adempimenti burocratici, normative indecifrabili, scadenze insostenibili, compensi irrisori e il pericolo costante di essere chiamato a rispondere per gli errori altrui: quanto è difficile portare il pane a casa.

C’era un tempo in cui essere un libero professionista significava appartenere a una classe sociale prestigiosa: era elemento distintivo e meritorio ai fini di ciò che nell’immaginario collettivo viene ritenuto socialmente rilevante; nonché, senz’altro gratificante pure dal punto di vista economico.

Il percorso da compiere, lungo e faticoso, comportava non poche rinunce agli ordinari divertimenti giovanili sacrificati sull’altare degli studi. E poi il tirocinio senza nemmeno una lira di rimborso (allora l’euro non esisteva); nonostante le quotidiane “commissioni” effettuate a proprie spese per il decano dello studio. Tutto avendo sempre ben presente l’importante traguardo che si stava cercando di raggiungere.

Erano i tempi in cui la classe dominante era il c. d. ceto medio, al cui interno, in cima alla piramide, si collocavano tutti i liberi professionisti e, dunque, anche i commercialisti (quando ancora tale titolo era connotato da una forte identità).

Quei tempi sono finiti da un pezzo.

Il ceto medio, nella sua completa stratificazione sociale (non solo con riguardo ai liberi professionisti), non esiste più. Del sistema di un tempo sono rimaste – e, anzi, si sono notevolmente accentuate – solo le disuguaglianze; che però non sono certo ascrivibili anche al possesso delle risorse culturali (come osservava il sociologo Max Weber nel XIX secolo), quanto piuttosto a un apparato politico che ha perso ogni nobile ideologia, cavalcando la cultura del laissez faire, ovverossia della libera prevaricazione del più forte sul più debole, per mero tornaconto personale nel nome del “potere”.

Oggigiorno, i commercialisti vivono una situazione di continuo disagio e profonda delusione (forsanche, frustrazione) per lo svilimento di quella che pensavano essere una nobile professione che – piaccia o non piaccia – assolve a irrinunciabili compiti sociali oltre che istituzionali. All’esterno, l’opinione pubblica continua a considerarci una sorta di privilegiati, senza avere la minima contezza delle realtà quotidiane con cui ci dobbiamo cimentare quando lasciamo le mura domestiche (vero rifugio psicologico, prima ancora che fisico), per recarci sul campo di battaglia a cercare di guadagnarci il pane in modo onorevole.

Gli attacchi alla categoria arrivano su tutti i fronti; un vero e proprio accerchiamento contro cui tentiamo strenuamente di difenderci:

-          lo Stato, in primis, artefice di leggi indecifrabili che nemmeno i suoi lacchè (profumatamente stipendiati esclusivamente per questo) riescono a interpretare correttamente; ma quando arriva l’errore, la colpa è dei commercialisti che non sanno fare il loro lavoro, e non di chi non sa scrivere una norma in un italiano passabile, o di chi – seduto a scranna con la veduta corta d’una spanna – si permette di giudicare, autorizzato a ciò da un titolo che dimostra sul campo di non meritare;

-          i burocrati, che presidiano gli uffici pubblici senza essere in grado di fornire risposte adeguate, ma sono pronti a sanzionare pesantemente ogni minimo adempimento che non sia stato eseguito in tempo o comunque seguendo il loro personalissimo e soggettivo vademecum procedurale;

-          gli organismi addetti a controlli, ispezioni e verifiche, che vanno in TV a chiedere la collaborazione dei commercialisti, ma, all’atto pratico, vedono nel professionista solo un nemico da sconfiggere, sul quale scaricare la responsabilità di qualunque atto compiuto dai contribuenti;

-          l’universo parallelo dei competitor (perché di questo si tratta): associazioni, società di servizi, ex-disoccupati provenienti da qualsiasi precedente impiego, ex-imprenditori falliti improvvisamente diventati maghi/escapologi esperti consulenti dei loro ex-colleghi, ogni altro quaquaraquà che con l’ausilio di una connessione Internet pensa di essere assurto al ruolo di fiscalista; tutti soggetti privi di adeguati titoli di studio, di necessarie conoscenze, di capacità specifiche, non tenuti al rispetto di alcuna norma deontologica, né copertura assicurativa, né obbligo formativo, pronti a sparare a zero sui commercialisti privilegiati e a proliferare nel sottobosco tariffario peggio di un’Amanita Phalloides, esercitando agguerrite azioni di dumping, al fine di erodere il mercato e renderlo incongruo rispetto anche alle basilari leggi della domanda e dell’offerta; soggetti che non rispondono quasi mai dei loro puerili sbagli (e, consentitemi, questo forse è pure un bene: atteso che quando succede, vengono immediatamente promossi col titolo di “commercialista” – senza esserlo mai stati – di fronte all’opinione pubblica, anche dalle c. d. Testate specializzate ed eccellenti);

-          gli stessi clienti, che dovrebbero essere i nostri migliori e più agguerriti testimonial ma che – nella maggioranza dei casi – con le loro omissioni e ritardi rendono spesso e volentieri impossibile rispettare le scadenze normative (già di per sé stesse insostenibili), che di fatto ci richiedono consulenze anche di tipo psicologico, che si rivolgono a noi per qualsiasi cosa (dall’infrazione al codice della strada, agli alimenti dell’ex-coniuge), che si rifiutano di rimborsare qualunque costo connesso ai nuovi adempimenti imposti dalla legge, e che però, qualunque imprevisto capiti loro, si difendono col classico “non so niente; ha fatto tutto il commercialista; chiedete a lui”;

-          il cittadino comune, per il quale i commercialisti sanno solo guadagnare sulla pelle degli altri, senza nemmeno saper fare bene il loro lavoro e risarcire i danni causati.

Insomma, nessuno più di un commercialista può comprendere le sensazioni che deve aver provato il generale Custer, circondato dagli indiani nemici a Little Bighorn. Con l’aggravante di vedersi pure denigrato dai media e dai parlamentari; quegli stessi media e parlamentari che, per contro, danno libero accesso e diritto di parola a personaggi dalla dubbia credibilità fiscale, arricchendoli e facendoli diventare improvvidamente autorevoli. D’altronde, elogiare un commercialista in Italia è notoriamente una sorta di harakiri elettorale.

Beninteso, tutte le professioni ordinistiche (non solo i commercialisti) hanno di che lamentarsi: i medici con la comunicazione delle spese sanitarie; gli ingegneri per le nuove procedure informatiche della Pubblica Amministrazione; gli avvocati che come noi subiscono le storture del processo telematico: avete ragione, sono solo ennesime dimostrazioni di come lo Stato addossi ai professionisti l’onere di risolvere i problemi e svolgere il lavoro a cui l’inefficienza del proprio apparato non sarebbe mai in grado di fare fronte.

Però, cari “cugini”, scusate se a noi commercialisti viene un po’ da sorridere allorché vi lamentate dei molti adempimenti burocratici, o del fatto che siete in troppi, molti colleghi sono poco scrupolosi e il lavoro diminuisce. Per noi, oramai, non passa giorno privo di scadenze da rispettare o adempimenti da eseguire, e se arriviamo a fine serata senza che ciò sia successo, non dormiamo la notte perché siamo certi che ci dev’essere senz’altro sfuggito. Quanto al lavoro, poi, meglio lasciar perdere: siamo di fatto l’unica professione ordinistica priva di esclusive; anzi, dobbiamo costantemente lottare pure contro chi sostiene che non possiamo svolgere talune specifiche attività in materia di lavoro e previdenza. Chiunque, una mattina, si sveglia e decide di fare il commercialista; ma i commercialisti (quelli veri), se non stanno attenti, rischiano pure di finire condannati per esercizio abusivo della professione.

Il Belpaese… no comment!

Soltanto il fatto di dover ogni volta rimarcare il titolo “commercialista” è emblematico di cosa siamo diventati. Un tempo, non era così; un tempo, non c’era certo bisogno di spiegare alla gente la differenza tra un commercialista e un abusivo (anche perché nessuno aveva l’ardire di auto-definirsi commercialista senza essersene guadagnato il titolo). E tutt’ora, in qualunque nazione, esistono sì le varie differenti specializzazioni all’interno della categoria, ma nessuno (nemmeno l’uomo della strada) si sognerebbe mai di confondere – che so – l’expert comptable, o il chartered accountant, o il certified public accountant, o l’auditor, col consulente abusivo. Quando specificate a un collega straniero che siete un commercialista iscritto all’albo, vi guarda come se foste un extra-terrestre o un aborigeno australiano (con tutto il rispetto per gli aborigeni, popolo ammirevole).

Nessuno più di un commercialista è favorevole alle specializzazioni, proprio perché è l’unico effettivamente edotto su quella che è la complessità e l’universalità del suo lavoro. Fatto sta che la strada della specializzazione, spesso, risulta di fatto impercorribile (e non solo per un’obbligata scelta di pura sopravvivenza economica).

Qualunque ramo specialistico si voglia intraprendere, infatti, l’apparato normativo ci impone comunque di essere anche: esperti in materia di privacy, esperti in materia di antiriciclaggio, esperti in materia di sicurezza sul lavoro, esperti in materia contrattuale, esperti in materia informatica, esperti in materia penale, esperti in materia civile, esperti in materia amministrativa e chi più ne ha più ne metta.

Caro Legislatore, ti diamo una notizia in “anteprima”: non lo siamo; né mai lo saremo!

Magari avessimo il tempo per dedicarci pure allo studio e all’applicazione di tali ulteriori disposizioni. Riusciamo a malapena a formarci professionalmente e approfondire la nostra materia. Per il resto, possiamo solo rivolgerci a un professionista esterno, pagarlo e incrementare ingiustamente le uscite del nostro già misero bilancio. Servissero, almeno, a qualcosa, questi adempimenti straordinari che ci vengono imposti (a parte, certo, per soddisfare gli interessi politici di chi li fa approvare dal Parlamento)…

Il volgo apre la bocca per dare fiato a delle corde vocali che paiono a dir poco “scordate”. E tutti noi vorremmo scendere in piazza e urlare al mondo degli ignavi qual è la realtà. Ma sarebbe fiato sprecato. Siamo invisi, inutile nascondercelo. Il popolo non ci ama; bene ammaestrato dal regime, ci considera evasori o comunque complici degli evasori. Arduo “illuminare” menti per anni obnubilate da contrariis verbis; da continui martellamenti denigratori, rimasti privi del benché minimo libero contraddittorio.

Come descrivere i sentimenti di frustrazione che si provano quando i clienti vengono a chiederti il redde rationem perché una politicante incompetente li ha persuasi del fatto che avrebbero potuto non versare l’IVA essendo residenti in Sardegna?

Come far capire che, nove volte su dieci, i proclami politici sulle semplificazioni fiscali nascondono in realtà ulteriori complicazioni, inasprimenti burocratici e lavoro straordinario non pagato che i commercialisti saranno costretti a svolgere?

Come spiegare all’opinione pubblica che i commercialisti vengono usati dalle forze politiche come capro espiatorio sotto la falsa effige della lotta all’evasione, quando invece sono proprio quei politici a non voler (o non saper, il che forse è anche peggio) combattere la vera evasione dei grandi gruppi, unica che rimetterebbe in piedi i conti pubblici?

Ogni giorno, ci troviamo alle prese con siti Internet predisposti da società incapaci, lautamente pagate dallo Stato (cioè, da tutti noi), che si “piantano”, sono in manutenzione, ti obbligano a impiegare un’ora per eseguire una pratica che necessiterebbe solo di pochi minuti. Ma, se non adempiamo, creiamo un danno ai clienti e ne rispondiamo personalmente. Sempre la stessa storia: dobbiamo porre riparo agli errori altrui, perché se non lo facciamo gli unici responsabili saremo noi.

Trasmettiamo dei file telematici il giorno della scadenza (anche perché solo le mosche bianche – o chi non ha lavoro – riesce a farlo prima, ammesso che le procedure lo permettano); il giorno dopo ci comunicano che il file è stato respinto dal sistema per questioni tecniche non a noi ascrivibili; l’adempimento risulta automaticamente tardivo e noi dobbiamo pagare le relative sanzioni.

Per poter verificare le posizioni fiscali e previdenziali dei nostri clienti (cose che costituiscono il pane quotidiano del lavoro del commercialista), ogni volta, dobbiamo compilare tanta di quella modulistica preventiva, autorizzazioni, procure e via discorrendo, che i clienti pensano che abbiamo in mente chissà quale disegno fraudolento a loro insaputa. E guai a chiedere business key o smart card (che qualcuno crede ancora sia una specie di carta di credito) per svolgere gli adempimenti camerali che li riguardano. Salvo, poi, lamentarsi perché: “Il commercialista del mio amico, queste cose, le fa”.

E, a proposito di camere di commercio, forse sarebbe il caso che il Ministero finalmente ci spiegasse perché la stessa pratica, preparata nei medesimi tempi e con identica documentazione, a seconda di chi la riceve e la deve lavorare, a volte è approvata altre respinta. O dobbiamo essere costretti ad aprire un contenzioso anche per queste ridicole questioni?

Un tempo, andavamo a discutere le situazioni più controverse direttamente presso gli enti interessati, instaurando un trasparente e proficuo dialogo col funzionario responsabile; oggi (forse anche perché è diventato sempre più improbabile trovare un degno interlocutore), l’innovazione tecnologica ha consegnato al mondo dei commercialisti i famigerati call center: rispondono dall’estero, ma se volete potete pretendere di parlare con qualcuno che risponde dall’Italia (anche se non necessariamente in italiano). Meglio stendere un velo pietoso sulle risposte che danno…

Tra le più grossolane prese in giro alla categoria, poi, non si possono non menzionare quei fantastici provvedimenti che sono le c. d. proroghe al fotofinish delle scadenze. Pensavamo di averle viste tutte, ma, l’anno scorso siamo arrivati alla follia pura (come a dire che al peggio non c’è mai fine): la scadenza prorogata dopo che era già scaduta. E nemmeno si vergognano…

Ma tutto ciò rappresenta solo la punta dell’iceberg.

Solo un accenno sulle visite di controllo nei nostri studi, malauguratamente depositari delle scritture contabili della clientela. Il campanello suona sempre in periodi particolarmente “topici”, onde cercare di creare maggior difficoltà possibile e “recuperare” materiale sanzionabile anche presso il commercialista più attento e scrupoloso, cosa che inopinatamente accresce la gratifica di fine anno degli autori dell’accertamento (altro regalo di chi ha pensato il sistema delle agenzie fiscali). A dire il vero, però, qui dovremmo essere sinceri e riconoscere che risulta assai arduo, oggigiorno, riuscire a indovinare un periodo in cui non vi siano adempimenti in scadenza. Resta il fatto che tutto il lavoro dello studio è inevitabilmente bloccato, come se si fosse improvvisamente verificato un black-out generale: ciò significa straordinari da pagare per provare a rimettersi in riga, a verifica ultimata; ossia, costi ulteriori non preventivati che nessuno ci rimborserà mai.

Dopo di che, si pretende dal titolare dello studio di provvedere a stampare conti, partitari, registri e via discorrendo, senza comprendere che, nella stragrande maggioranza dei casi, il titolare non ha la minima idea di come funzionano le procedure contabili. Ma in che mondo vive questa gente? Magari potessimo fare tutto noi e metterci in tasca gli stipendi che paghiamo ai nostri collaboratori per contabilizzare le fatture o elaborare le buste paga. Solo che, a quel punto, non avremmo più il tempo di studiare e non saremmo in grado di fornire l’attività di consulenza (che dovrebbe rappresentare il nostro vero lavoro) per la quale i clienti ci pagano (sempre che riusciamo a incassare i nostri crediti).

Ma la ciliegina sulla torta, il lugubre spettro che accompagna la nostra esistenza, è l’altissima probabilità di finire tutti, prima o poi, imputati di qualche reato fiscale commesso dai nostri clienti. L’orientamento della Cassazione (stranamente, considerato che sui temi fiscali è quasi sempre a dir poco ondivago) non ammette repliche: se un contribuente viene indagato, l’ideatore del reato è il suo commercialista, anche se non ne ha tratto alcun vantaggio. Nella “migliore” delle ipotesi, il commercialista è comunque colpevole perché non poteva non sapere. E, per rincarare la dose, hanno pure varato una legge che inasprisce le pene a carico dei commercialisti: a esser commercialista, ci guadagni l’aggravante.

Non poteva non sapere?

Ma di cosa parlate? Uscite dalla vostra gabbia dorata e venite a conoscere il mondo vero! Chi le vede le fatture che i clienti danno da registrare? E, nella fortunatissima ipotesi in cui i nostri più scaltri e valenti collaboratori subodorassero una qualche anomalia nella fatturazione, cosa potrebbero fare? Evitare di registrarle? Così, dopo, con l’invio dei dati risulta l’anomalia e le sanzioni le pagano i commercialisti? O denunciare il contribuente sulla base di presunzioni e ricevere per risposta una contro-denuncia per – quanto meno – diffamazione? Noi non siamo i funzionari dell’Agenzia delle Entrate che possono permettersi di denunciare chiunque, senza avere alcun valido indizio, sulla base solo di presunzioni talmente deboli da non reggere neppure in sede tributaria, avendo sempre e comunque l’immunità e l’impunità (oltre al premio di produzione), anche se col loro operato hanno distrutto la vita di intere famiglie.

Per non parlare, poi, dei rischi che corriamo allorquando addirittura ci azzardiamo ad accettare incarichi di sindaco o revisore… come giocare a Black Jack contro il banco.

In compenso ci hanno concesso sulla carta il segreto professionale che, però, nella pratica, è diventato una pericolosissima arma a doppio taglio.

Senza andare oltre nell’elencazione di situazioni paradossali che necessiterebbero di un’apposita antologia suddivisa in tomi, ci preme in conclusione (più che un “dulcis in fundo”, appare appropriato parlare di un “in cauda venenum”) ricordare cosa rappresenta per il commercialista quello che per tutti i lavoratori del mondo è il periodo più bello dell’anno: il meritato riposo feriale.

Incominciamo subito col premettere che quando la maggior parte del mondo del lavoro va in ferie, per i commercialisti inizia il periodo più duro e complesso dell’anno. Cosa risaputa anche dall’uomo della strada, seppure fa finta di dimenticarsene quando, con strenua fatica, dando diuturna dimostrazione del proprio sottosviluppo culturale e intellettuale, prova a elencare i vantaggi esistenti nell’essere un commercialista.

Il Legislatore – bontà sua – ha pensato bene allora di regalarci quella “splendida” norma che prevede la posticipazione al 20 di agosto di tutti i pagamenti aventi scadenza tra il 1° del mese e appunto il 20. Non c’è che dire. Davvero un gradito omaggio per i commercialisti. Così, dopo esserci annientati di lavoro durante il mese di luglio mentre la metà degli Italiani (inclusi i nostri clienti) andava al mare, siamo obbligati a lavorare anche in agosto, quando la seconda metà degli Italiani se ne va meritatamente in ferie e la prima metà – appena rientrata – legittimamente pretende di pagare tributi e contributi l’ultimo giorno possibile.

Un tempo, a lenire il dolore, perlomeno giungevano le altrettanto meritate vacanze natalizie. Da qualche anno a questa parte, però, l’amato Stato ha pensato bene di rubarci anche queste, nel nome di una legge che non reca pressoché alcun concreto vantaggio finanziario: l’acconto IVA di fine dicembre, giusto tra il panettone di Natale e il brindisi di Capodanno.

Ma siccome i governanti devono fare bella figura coi contribuenti (non si sa mai capiti per sbaglio che non li rieleggano più e perdano l’agognata pensione da scansafatiche), per far scivolare dolcemente la supposta ed evitare dolori emorroidali, hanno concesso la possibilità di versare detto acconto IVA sulla base del “calcolato” anziché del “presunto”: poffarbacco, l’unico caso in cui le presunzioni non hanno goduto del solito appeal fiscale.

Ciò, evidentemente, comporta lavoro extra (superfluo specificare, non pagato) per i commercialisti che devono abbandonare l’idea del riposo feriale anche in tale periodo dell’anno, posto che legittimamente i clienti pretendono di sapere, prima di pagare, se l’acconto “calcolato” è meno oneroso dell’acconto “presunto”. Clienti che, poi, magari ci chiamano al cellulare i primi di gennaio per la solita urgenza improrogabile (tipo: vorrei sapere subito come chiude il bilancio anche se non ho la minima idea di quelle che sono le rimanenze perché in questo periodo mi riposo e non mi metto a fare l’inventario), e ci dicono:

-          Ma come, riaprite lo studio dopo la Befana? Vacanze lunghe, quest’anno…

-          Ma vammoriammazzato!

Se queste sono le ferie dei commercialisti, proviamo solo a immaginare che cosa accade nelle sfortunatissime ipotesi di infortuni o malattie. E non parliamo delle commercialiste-donne che tentano di portare avanti, insieme allo studio, anche una sacrosanta gravidanza: per quel che può valere, hanno tutta la mia comprensione.

Ecco brevemente illustrata la VERITÀ sul commercialista oggi.

Nessuna sorpresa, dunque, quando, contrariamente alla quasi totalità dei padri orgogliosi nel vedere la prole ripercorrere il cammino paterno, i papà-commercialisti, viceversa, oggi, non hanno affatto tale bramoso desiderio; anzi…

A ogni omuncolo, piccolo, piccolo, sia esso governante o governato, che va in TV per denigrare il nostro lavoro, per accusarci di essere ricchi, evasori e privilegiati, che ci considera alla stregua di qualunque abusivo ignorante e parassita (ma non potrebbe fare mai a meno di noi), la mia risposta oggi è solo una:

-          Non mi dia del “commercialista-qualunquista”. Io sono un Signore! E lei?

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