Paolo Soro

Dai “Panama Papers” ai “Paradise Papers”, dal “Double Irish” al “Single Malt”: fatta la legge, trovato l’inganno!

Anche la seconda decade del terzo millennio si avvia alla conclusione e nessuno vuol più sentire parlare di “paradisi fiscali”: ormai non esistono più. Ma sarà davvero così? Sicuramente, il termine è desueto, anacronistico, superato. Nella realtà, peraltro, gli effetti “paradisiaci” restano immutati in molte parti del mondo.

Gli intenti elusivi che un tempo si raggiungevano sfruttando le note Giurisdizioni “Tax Haven”, oggigiorno si perseguono sfruttando disallineamenti fra determinati Paesi, triangolazioni convenzionali, abusi di trattati, stabili organizzazioni “fantasma”, costruzioni societarie con residenze fiscali fittizie etc. Insomma, sarà cambiata la forma, ma non la sostanza.

Nonostante gli interventi attuati a più riprese nella legislazione tributaria, finanziaria e previdenziale internazionale, l’elusione delle grandi multinazionali perpetrata tramite tipiche attività di pianificazione fiscale aggressiva arreca un danno all’economia mondiale talmente rilevante da non riuscire nemmeno a essere effettivamente quantificato. Il Senato americano ha stimato che le imposte sottratte al Fisco dalla sola Apple, tra il 2009 e il 2012, ammonterebbero a circa 74 miliardi di dollari. In ottica europea, la Commissione UE valuta in 1.000 miliardi di euro l’evasione complessiva nel vecchio continente da parte delle c. d. OTT (Over The Top): ovverossia, le imprese multinazionali del web (Apple, Google, Amazon, Facebook, Microsoft).

Senza essere dei geni matematici, si fa presto a fare due calcoli e comprendere che se i Governi riuscissero davvero a debellare questa piaga avrebbero azzerato i propri deficit e trovato la panacea per curare ogni problema economico. Viceversa, nella pratica, continuiamo ad assistere ad attività ispettive che preferiscono dedicarsi alle micro, piccole e medie imprese, almeno apparentemente più vulnerabili, evitando di concentrare gli sforzi per mirare al bersaglio grosso, come sarebbe non solo auspicabile ma doveroso.

In proposito, la scusa ufficiale è sempre la stessa: la macchina giurisdizionale sovranazionale è troppo lenta e non riesce a stare al passo con i framework innovativi che i grossi gruppi riescono a predisporre e mutare velocemente nel tempo, onde correre immediatamente ai ripari nei casi di modifiche normative. Peraltro, contro tale giustificazione è fin troppo facile obiettare che, evidentemente, alla base vi è l’incapacità di emanare leggi semplici, chiare e a prova di multinazionale.

Più facile, invece, osservare come ci troviamo di fronte a una non reale volontà di globale armonizzazione tributaria, previdenziale e finanziaria: ogni Stato ha i propri interessi e le proprie peculiarità; mal si presta ad accettare limiti e/o coercizioni che provengano da organizzazioni internazionali le cui potestà tutto sommato non appaiono ancora bene individuate e riconosciute (per meglio dire, ufficialmente ratificate) dai differenti Governi nazionali. E quando ciò accade (in quei rari casi in cui avviene), i buoi sono già scappati dalla stalla.

La cronicità della situazione è tale che anche i non-tecnici della materia hanno ormai incominciato a capire che certi proclami servono solo come specchietti per le allodole (rectius, propaganda populista per raccogliere i consensi dell’opinione pubblica); ma che poi, nella pratica, non si abbia alcuna concreta intenzione di agire in modo efficace. Tanto è vero che i grossi scandali fiscali, previdenziali e finanziari mondiali vengono di regola scoperti dai media internazionali, imbeccati dagli hackers informatici; non certo dagli ispettori del Fisco e degli enti previdenziali, o dalle Autorità preposte al controllo interbancario. E quando ciò accade, i nomi (e le lobby) che balzano agli “onori” della cronaca risultano essere la conferma dei precedenti “cattivi pensieri”.

Tutti noi ricordiamo lo scandalo dei “Panama Papers”: fascicolo riservato digitalizzato, composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali, creato dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, specializzato in servizi di gestione finanziaria, incorporazione di compagnie in “paradisi fiscali”, amministrazione di aziende offshore et similia.

Era l’agosto del 2015, quando la raccolta contenente documenti compromettenti risalenti fino agli anni settanta, venne consegnata alla Süddeutsche Zeitung e, conseguentemente, al Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ – International Consortium of Investigative Journalists), con sede negli Stati Uniti, mediante chat ed e-mail criptate.

I documenti mostrarono come individui altolocati, compresi funzionari pubblici (tra questi, i leader di Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti, Islanda e Ucraina), nascondessero regolarmente i loro introiti ai controlli statali. Le informazioni dettagliate concernevano oltre 214.000 società offshore, includendo le identità degli azionisti e dei manager. Nei documenti erano menzionati anche funzionari di governo (nonché parenti e stretti collaboratori di vari capi di Stato) di più di 50 Paesi, tra cui: Algeria, Angola, Azerbaijan, Botswana, Brasile, Cambogia, Cile, Cina, Costa d'Avorio, Ecuador, Egitto, Francia, Ghana, Grecia, Guinea, Honduras, India, Israele, Italia, Kazakistan, Kenya, Malesia, Marocco, Messico, Malta, Nigeria, Pakistan, Panama, Perù, Polonia, Regno Unito, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Ruanda, Senegal, Siria, Spagna, Sud Africa, Taiwan, Ungheria, Venezuela e Zambia.

Orbene, dopo che i personaggi pubblici passati indenni allo scandalo dei “Panama Papers” hanno – apertis verbis et ore rotundo – condannato i loro “colleghi”, l’opinione pubblica non ha nemmeno fatto a tempo a mandare nel dimenticatoio lo scoop del secolo, che è esplosa anche la bomba dei “Paradise Papers”: altri 13,4 milioni di file che, proprio attualmente, stanno venendo man mano resi pubblici, facendo luce sulle attività ai limiti della legalità di svariati centri finanziari offshore.

I documenti (questa volta, dello studio legale offshore Appleby) fanno riferimento a più di 30 Giurisdizioni “paradisiache” e coprono un periodo di oltre 60 anni (fino al 2014). Nei file compaiono i nomi di azionisti, funzionari e manager di tutto il mondo che hanno fatto affari con fondazioni, trust e società offshore. In alcuni casi specifici sono rivelati anche i nomi dei veri proprietari dei veicoli segreti di custodia del patrimonio.

Più del 70% dei nuovi file pubblicati mese di novembre appartengono a entità con attività nelle Isole Bermuda e nelle Cayman. Centinaia di file sono invece legati all’Isola di Man, a Jersey e alle Mauritius. Le indagini vedono coinvolti manager, personalità del mondo dello spettacolo, multinazionali e politici: si va da magnati come James Simons (ricco matematico americano, fondatore dell’hedge fund: Renaissance Technologies), che avrebbe occultato 8 miliardi al Fisco americano per mezzo del “Lord Jim Trust” con sede alle Bermuda, ai ministri USA (del Commercio e del Tesoro), Wilbur Ross e Rex Tillerson, alle multinazionali Apple, Starbucks, Pfizer, Tesla e Nike, fino addirittura alla Regina Elisabetta II d’Inghilterra.

Parlando di finanza celata al Fisco, ovviamente, non potevano mancare grossi gruppi italiani. L’orchestratore delle operazioni sarebbe stato José Maria Figueres, capo del World Economic Forum negli anni 2000/2004, nonché membro del CDA di Energia Global International, azienda con sede alle Bermuda, diventata, proprio nel 2001, una controllata di Enel Spa. Nel 2003, quando Figueres aveva lasciato la carica nel CDA, la sede era stata trasferita, per motivi fiscali poco propizi a Enel, nel Delaware (Stato americano noto per la riservatezza dei suoi registri societari, nonché per l’irrilevanza dell’imposizione tributaria).

Cionondimeno, tranne qualche raro caso, i “papers”, siano essi panamensi o paradisiaci, potranno causare soltanto notevole imbarazzo e alcune obbligate dimissioni eccellenti; nulla di più; niente di illegale. Perché? Perché si tratta di operazioni al limite dell’elusione, eseguite approfittando delle falle esistenti nelle normative tributarie, previdenziali e finanziarie internazionali, emanate dai rispettivi Governi che si dimostrano particolarmente severi nel punire i piccoli evasori, ma – alla prova dei fatti – risultano totalmente incapaci nel tassare i frutti dell’elusione internazionale dei contribuenti che contano davvero quanto a fatturati e redditi potenzialmente imponibili.

Secondo un report pubblicato a settembre dall’economista Gabriel Zucman, il 10% del Pil (pari a circa 7.800 miliardi di euro) è depositato in conti offshore. Stando, invece, ai calcoli pubblicati l’anno scorso dal Boston Consulting Group, la somma presente in tali conti correnti toccherebbe i 10.000 miliardi. La realtà è che risulta davvero difficile per tutti (anche per gli esperti del settore) quantificare certi importi.

Quello che, viceversa, appare facilmente prevedibile è il fatto che di “papers” ne vedremo ben presto ancora molti altri, alla faccia dei principi comunitari concernenti gli obbligatori requisiti societari di “costruzione genuina” e “sostanza economica”.

Passando a questioni più tecniche, non si è ancora spenta l’eco irlandese dei noti framework sviluppati dai colossi del Web, primo fra tutti, Google, con il suo schema combinato “Double Irish” / “Dutch Sandwich”, che spunta già il nuovo “Single Malt”.

Rinfreschiamoci le idee, riassumendo velocemente l’impalcatura societaria messa in piedi dal noto motore di ricerca.

Google è fisicamente localizzata in Paesi con pressioni fiscali abbondantemente superiori al 20%; negli Stati Uniti (mercato principale), la media per entità societarie simili è del 35%; in Gran Bretagna (secondo mercato per importanza), si parlava del 28% circa (ovviamente, ora, con la Brexit, resta tutto da verificare). Orbene, in base ad appositi accordi contrattuali, la capogruppo americana di Google cede i diritti di sfruttamento della propria tecnologia a una società controllata con sede in Irlanda (Google Ireland Holdings Ltd), la quale però risulta in realtà fiscalmente residente nelle Bermuda, poiché vi ha stabilito la propria sede di direzione effettiva.

Google Ireland Holdings, che ha acquistato la licenza, sottoscrive un contratto di sub-licenza con una società di fatto non operativa residente in Olanda (Google Netherlands Holdings Bv), controllata al 100%, priva di beni, dipendenti o asset (vale a dire, una classica conduit company – società veicolo / soggetto intermediario). La controllata olandese, a sua volta, subappalta la licenza afferente la tecnologia ad altra società irlandese del gruppo che, a differenza della Google Ireland Holdings, è residente a tutti gli effetti in Irlanda, ha circa 2.000 dipendenti e funge, in sostanza, da centro di fatturazione dei profitti conseguiti dal gruppo in tutto il mondo (Stati Uniti esclusi). Questa seconda società partecipata irlandese concede a sua volta i diritti di sfruttamento delle licenze (e, in generale, ogni tipologia di proprietà intellettuale), a tutte le società operative del gruppo localizzate nei vari mercati di sbocco europei (Italia inclusa).

In sostanza, la società che viene assoggettata a tassazione ordinaria è, ovviamente, solo detta ultima irlandese: peraltro, l’aliquota ordinaria irlandese è la più bassa tra quelle dell’UE a carico delle società di capitali (12,5%); oltre a ciò, gli utili risulteranno essere assai modesti in quanto tale partecipata irlandese (presso la quale, a seguito della sub-cessione delle licenze, affluiscono dai vari Paesi i proventi del business), a sua volta, deve pagare importi elevatissimi per le royalties passive alla società olandese del gruppo.

Dopo di che, per mantenere il tutto at arm’s length principle e rispettare le regole sul transfer pricing, è sufficiente inserire quel tanto di margine necessario atto a remunerare i propri costi industriali e lasciare un piccolo ulteriore gap da assoggettare alla modesta aliquota del 12,5% per accontentare il Fisco irlandese. Inoltre (e qui sta il “bello”), sulle royalties pagate alla società olandese del gruppo, non vengono prelevate le ritenute alla fonte, in quanto la normativa tributaria irlandese prevede che i flussi diretti a società di qualsiasi tipo dell'UE sono esenti.

Sulla sponda olandese, poi, la controllata trasferisce (tolta solo una marginale commissione per il pagamento dei propri servizi, sempre per fare in modo di essere in regola con la normativa internazionale in materia di transfer pricing) le royalties “piene” alla prima partecipata irlandese (Google Ireland Holdings). Su tale ulteriore passaggio (canoni in uscita per lo sfruttamento in loco delle royalties), il regime tributario olandese consente di non applicare alcuna ritenuta alla fonte. Come detto, inoltre, la Google Ireland Holdings risulta fiscalmente residente alle Isole Bermuda (corporate tax = 0) per avervi delocalizzato il management.

Conclusione: Google riesce a far confluire quasi il 98% dei suoi profitti netti mondiali (USA esclusi) alle Bermuda, via Google Netherlands Holdings, tipica conduit company priva di personale.

La pacchia irlandese, peraltro, finirà nel 2020, posto l’obbligatorio cambio di rotta che il governo locale è stato costretto ad attuare, secondo le raccomandazioni dell’OCSE e della Commissione UE: il “Double Irish” (sfruttato da Google in abbinamento col “Dutch Sandwich”) non sarà, infatti, più utilizzabile dai grossi gruppi internazionali ivi delocalizzati, a partire dal 1° gennaio 2021.

Tutto risolto, dunque: niente più “Double Irish” e “Dutch Sandwich”. Manco per idea!

Già ora, ossia, ben prima dell’anzidetta scadenza del 2020, le multinazionali sono pronte col nuovo framework ribattezzato per l’occasione: “Single Malt”.

Uno studio presentato da “Christian Aid”, agenzia che promuove la battaglia contro la povertà, rivela come le multinazionali adottino un meccanismo che permette il trasferimento dei profitti in Paesi con cui l'Irlanda ha concluso trattati contro la doppia tassazione e che prevedono imposte ridotte sulle società. Tra queste nazioni (l'Irlanda ha concluso accordi con 73 Paesi) vi è per l'appunto Malta, da cui il nome: “Single Malt”. Secondo lo studio, il nuovo meccanismo approfitta della rinuncia, da parte dell'Irlanda, di applicare l'articolo 12 dello strumento multilaterale OCSE che proibisce il trasferimento delle responsabilità fiscali ad altre giurisdizioni.

Attualmente, sarebbero quattro le multinazionali che utilizzano il meccanismo, tra cui: Microsoft e la casa farmaceutica Allergan, la quale ha stabilito strutture tra l'Irlanda e Malta, mentre, prima del 2015, per utilizzare il noto “Double Irish”, disponeva di sussidiarie tra l'Irlanda e le Bermuda.

Il “Single Malt” metterebbe in condizione le grosse multinazionali di conseguire sostanzialmente gli stessi effetti pratici del precedente “Double Irish”, permettendo di fatto il trasferimento dei ricavi netti prodotti, prima di doverli assoggettare alla tassazione ordinaria.

Per evitare certi illeciti vantaggi, l’OCSE sta predisponendo la progressiva sostituzione del vecchio schema di trattato bilaterale, col nuovo modello convenzionale multilaterale. Oltre a ciò, appare indispensabile aggiornare il concetto di stabile organizzazione e, in generale, modificare le regole della residenza fiscale in modo che quanto meno le imprese dotate di una sede legale in un determinato Paese, vi siano allo stesso tempo considerate pure fiscalmente residenti.

Nel frattempo, però, si fa finta di scoprire improvvisamente solo adesso che, per anni, il vero “Tax Haven” d’Europa è stato proprio uno degli Stati membri fondatori dell’UE: ovvero, i Paesi Bassi. Questo “nuovo” segreto di Pulcinella è stato svelato da un’inchiesta della Süddeutsche Zeitung.

Al centro c’è una struttura nota come Commanditaire Vennootschap (CV), che corrisponde sostanzialmente a una SAS (Società in Accomandita Semplice) italiana. Nei Paesi Bassi, le CV non sono tassate direttamente; lo sono solo i loro soci. Ora, se una società americana è uno dei soci della CV olandese, i Paesi Bassi presumono che gli utili del socio siano tassati negli Stati Uniti. All’altro capo dell’oceano, peraltro, il Fisco dello Zio Sam vede la CV olandese come soggetto imponibile fiscalmente. Risultato: siamo di fronte a un classico caso di “doppia non-imposizione” e nessuno alla fine paga le tasse. La possibilità di utilizzare questo schema ai limiti della legalità risale al 6 luglio 2005, data nella quale una convenzione fra Stati Uniti e Paesi Bassi di fatto ha legalizzato l’abuso del diritto olandese sulle società.

Ecco, quindi, un altro pesante indizio a carico dei Governi burattinai: non solo, non agiscono ratificando subito gli aggiornamenti delle convenzioni internazionali in essere, ma – più di una volta – siglano accordi differenti di propria iniziativa per soddisfare i loro interessi a scapito della lotta all’elusione mondiale, salvo poi condannarla pubblicamente per esigenze di audience.

Nel caso appena citato, dalla firma della convenzione, circa 500 miliardi di euro di profitti societari sono fluiti in Olanda, secondo l’analisi effettuata dal media locale “De Corrispondent”.

Nicholas Shaxson, studioso esperto di fiscalità internazionale, ha osservato come in tema di elusione fiscale: “Quelli che sanno non parlano e quelli che parlano non sanno”. Concordiamo pienamente!

In conclusione, i vari “papers”, da una parte, e i framework societari “Double Irish”, “Dutch Sandwich” e “Single Malt”, dall’altra, sono solo due facce della stessa medaglia: una normativa tributaria, previdenziale e finanziaria a carattere sovranazionale che risulta essere – come qui dimostrato – assolutamente deficitaria e inadeguata.

Ad avviso di chi scrive, recuperare i grossi redditi prodotti dalle grandi multinazionali e sfuggiti alle grinfie del Fisco attraverso le maglie larghe imbastite dal legislatore, probabilmente è l’unico mezzo rimasto oggi per acquisire quell’indispensabile quantità di proventi finanziari tali – se impiegati oculatamente – da sconfiggere la crisi economica mondiale nel suo complesso. Una crisi economica che, inevitabilmente, è destinata a perdurare e anzi inasprirsi di pari passo con l’incremento della popolazione globale e la correlata diminuzione delle risorse naturali disponibili.

Purtuttavia, combattere l’elusione fiscale internazionale resta una battaglia persa in partenza, in quanto detta elusione è figlia degli interessi privati individuali di Governi …e governanti.

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