Paolo Soro

WebTax

Il recente vertice ECOFIN svoltosi a Tallin ha evidenziato l’iniziativa (promossa dall’Italia, unitamente a Francia, Germania e Spagna) di introdurre un nuovo specifico sistema di tassazione per combattere l’erosione fiscale perpetrata dalle multinazionali del web.

È fatto notorio che la digital economy si sviluppi nel mondo con un ritmo e una velocità tali da non consentire alla normativa tributaria internazionale di restare al passo. Le dematerializzazione, in effetti, consente alle web companies (specie con riferimento alla definizione di residenza fiscale e di stabile organizzazione) di bypassare agevolmente le regole che permettono di tassare gli utili effettivi nel luogo dove vengono realmente prodotti, o comunque di collegare in maniera appropriata i ricavi con i costi che li hanno concretamente generati in funzione del luogo: si tratta, in sostanza, del principio del Nexus Approach di matrice OCSE/G20.

La proposta (particolarmente caldeggiata proprio dall’Italia) prende il via dall’analisi di taluni indiscutibili dati di fatto:

-          la digital economy vale oggi più del 10% del PIL europeo ed è destinata a crescere negli anni a venire in misura più che proporzionale;

-          la sola raccolta di pubblicità online vale circa 40 miliardi di euro a livello europeo e poco meno di 2 miliardi di euro a livello italiano;

-          circa il 35% delle attività pubblicitarie sono eseguite mediante il canale digitale, e anche in questo caso il dato è destinato a crescere.

Orbene, atteso che le norme vigenti – ora come ora – non consentono di raggiungere lo scopo, sono state ipotizzate le seguenti due principali strade da seguire:

  1. la creazione di un’imposta sul fatturato (Equalization Tax), indipendente rispetto a quella sul reddito d’impresa;
  2. la ridefinizione del concetto di stabile organizzazione per adeguarlo alle mutate esigenze imposte dall’economia digitale.

Inutile dire che l’opzione 1 è quella più “gettonata” poiché potrebbe teoricamente raggiungersi in tempi brevissimi: si parla di un primo protocollo d’intesa comune da siglare entro il 2018 e di un’entrata a regime a partire dal 2020, attraverso un accordo di cooperazione rafforzata. Nel secondo caso, viceversa, l’obiettivo potrebbe conseguirsi soltanto tramite la sottoscrizione e la ratifica di un nuovo modello convenzionale multilaterale che facesse propria – appunto – la definizione del concetto di stabile organizzazione in relazione all’odierno modus operandi delle c. d. Over-The-Top (OTT) nel crescente segmento di mercato della digital economy.

Equalization Tax

L’iniziativa, in pratica, mira a istituire un nuovo tributo, completamente staccato dalle imposte sul reddito, la cui base imponibile dovrebbe essere rappresentata dal fatturato realizzato dalle citate OTT (dunque, anche extra-UE), soggetta a un’aliquota ridotta (tra il 2% e il 5%), di guisa che sarebbe così aggirata la problematica ridefinizione del concetto di stabile organizzazione.

Per la determinazione e la localizzazione del fatturato, ci si rifarebbe alla normativa europea in tema di country-by-country reporting (direttiva 2016/881/UE, recepita in Italia con decreto MEF del 23 febbraio 2017). Mentre, le inevitabili divergenze fra gli Stati membri potrebbero risolversi tramite le procedure amichevoli sul meccanismo di risoluzione delle controversie, attualmente all’esame del Parlamento UE, seppure ancora da emendare.

Una prima considerazione concerne il rispetto del divieto di discriminazione sotto il profilo della libertà di stabilimento: lo stesso tributo dovrebbe essere applicato dai Paesi membri anche relativamente ai soggetti residenti.

Peraltro, il nodo principale resta quello concernente la concreta legittimità di un simile tributo avuto riguardo al diritto domestico (esempio: art. 53 Cost. sulla capacità contributiva). All’uopo, occorrerebbe prevedere la deducibilità dalla base imponibile dell’imposta sul reddito societario, o un altro meccanismo idoneo: esenzione, credito d’imposta, etc., da configurarsi anche a livello intra-comunitario fra le varie nazioni interessate nei casi specifici.

Evidentemente, però, nelle ipotesi di gruppi operanti al di fuori dei confini europei, la questione appare assai meno fattibile, dovendo fare i conti con la definizione di “tax on income”, di cui all’art. 2 del modello OCSE: se, infatti, non si realizza il presupposto della doppia imposizione convenzionale, la società non può godere dei meccanismi di prevenzione (esenzione o credito d’imposta) previsti dallo specifico trattato bilaterale applicabile.

Tornando all’analisi comunitaria, il profilo d’incompatibilità – ad avviso di chi scrive – più difficile da superare, si riscontra nell’art. 401 della direttiva IVA 2006/112/CE, che prescrive il divieto di duplicazione dell’imposta sul volume d’affari. I fautori dell’Equalization Tax affermano che, laddove il tributo venisse applicato soltanto agli acquisti effettuati da imprese UE, lo stesso non si ripercuoterebbe direttamente sui consumatori finali, differenziandosi così dall’IVA.

Francamente, tale argomentazione non convince.

Da un punto di vista prettamente giuridico, occorre innanzitutto rilevare che è in dirittura d’arrivo la modifica all’IVA europea basata del principio di destinazione. In tale ottica, appare davvero difficile pensare che, agli effetti pratici, il tutto non si risolva in una sorta di duplicazione dell’IVA.

Da un punto di vista sostanziale, poi, siamo certi che le multinazionali della digital economy troveranno facilmente il modo di addossare sui consumatori/clienti tutti gli aggravi derivanti dall’Equalization Tax; senza, oltre tutto, voler sottacere degli inevitabili effetti depressivi sulla domanda e sullo sviluppo del settore che causerebbero palese nocumento ai consumatori, prima e più che in capo agli altri soggetti del mercato.

A questo punto, tanto varrebbe evitare tutte queste problematiche e limitarsi a concordare a livello comunitario un aumento generalizzato dell’aliquota IVA, tanto la sostanza resterebbe immutata e perlomeno non si dimostrerebbe di volere per l’ennesima volta prendere in giro i cittadini, offendendo la loro intelligenza. Far ricadere sulle spalle dei consumatori gli oneri connessi a una straordinaria tassazione a carico delle OTT, non solo è un obbrobrio giuridico, ma, prima ancora, è un atto immorale, scevro di qualsivoglia minimo precetto etico.

Stabile organizzazione

Per la tassazione delle imprese che operano nell’economia digitale, la seconda strada ipotizzata è quella legata alla definizione di un nuovo concetto di stabile organizzazione di tipo bilaterale: ossia, quella attuale, valevole per l’economia tradizionale, affiancata a una nuova formulazione slegata dal concetto di residenza fiscale del gruppo come luogo di produzione del reddito, per meglio adattarsi alle multinazionali del web.

Sono da tutti ben conosciute le vicende che hanno interessato le OTT, le quali si sono dimostrate capaci di realizzare profitti – specialmente, in Europa – generando un livello di tassazione massimo pari al 3%, mediante lo sfruttando dei loro insediamenti in Paesi UE a basso livello impositivo e la contemporanea triangolazione con Paesi extra-UE a fiscalità privilegiata o addirittura assente. La mancata possibilità di qualificare come stabile organizzazione le entità che non rientrano nei requisiti all’uopo fissati dalla legge, inserita in tipici sistemi elusivi (quali, i famosi double Irish e Dutch sandwich), ha infatti consentito, sostanzialmente, di spostare la quasi totalità del reddito imponibile prodotto, in Stati extra-europei nei quali il tax rate corporate è praticamente nullo.

D’altronde, come già precisato, l’economia digitale è caratterizzata dalla dematerializzazione dei servizi erogati che rende inadeguate le attuali regole di imposizione sul reddito originate dalla presenza fisica; ossia, con espresso riferimento al luogo effettivo di produzione degli stessi servizi.

Da un lato, non appare corretto discriminare il commercio elettronico rispetto alle altre forme di scambio più tradizionali; dall’altro lato, è necessario garantire la capacità dei governi di tassare opportunamente tutti i redditi prodotti. Sostanzialmente, non è di sicuro accettabile che, pur di non correre il rischio di danneggiare le attività di e-commerce, si finisca al contrario per privilegiarle: ciò, infatti, tra le altre cose, produrrebbe anche distorsioni fra imprese in termini di concorrenza, di investimenti, di patrimonializzazione e, quindi, di allocazione di risorse.

La ratio della web tax transitoria introdotta dalla Manovra correttiva 2017 (art. 1, DL 50/2017) è quella di contrastare l’evasione tipica delle transazioni online, ma non rappresenta certo la soluzione al problema. Trattasi semplicemente di un procedimento amministrativo che va ad aggiungersi ad altri strumenti, quali: il ruling internazionale, la cooperative compliance, la procedura di adesione all’accertamento etc. Tale procedura si fonda intorno al concetto di stabile organizzazione, particolarmente aleatorio e incerto, allo stato attuale della normativa. E, comunque, non è pensabile ricercare una soluzione soltanto a livello nazionale; tanto più nel caso di specie, dove bisogna tentare di risolvere delle problematiche che attengono al mercato mondiale della digital economy.

Sempre sotto il profilo della normativa nazionale, come noto, la stabile organizzazione è individuata dall’art. 162 del TUIR, il quale, in sostanza, replica la previsione di cui all’art. 5 dell’OECD Model Tax Convention on Income and on Capital. Cionondimeno, l’anno scorso è iniziato lo studio di un disegno di legge che ipotizza l’introduzione del nuovo art. 162-bis, rubricato “Stabile Organizzazione Occulta”:

1. Indipendentemente dalla presenza di mezzi materiali fissi, si considera esistente una stabile organizzazione occulta qualora vengano svolte nel territorio dello Stato, in via continuativa, attività digitali pienamente dematerializzate da parte di soggetti non residenti.

2. L’esistenza di una stabile organizzazione occulta si configura qualora il soggetto non residente:

a) manifesti la sua presenza sul circuito digitale ponendo in essere un numero di transazioni superiore, in un singolo semestre, a cinquecento unità; [numero che, peraltro, continua a essere variato]

b) percepisca nel medesimo periodo un ammontare complessivo non inferiore a un milione di euro [anche tale parametro, in realtà, è continuamente oggetto di numerose discussioni; sarebbe inoltre particolarmente importante ai fini interpretativi, inserire una “e”, ovvero una “o” tra i punti a) e b), onde comprendere subito, senza equivoci di sorta, se le due condizioni devono coesistere entrambe, ovvero se sono alternative fra loro].

Come si evince dal tenore letterale della legge, è lapalissiana l’intenzione del Legislatore di andare a tassare l’operatività in Italia delle OTT, indipendentemente dalla circostanza che i loro framework operativi non presuppongano alcuna stabile organizzazione nel nostro Paese, intesa secondo i criteri tradizionali.

Al riguardo, pare superfluo rimarcare come, nell’attuale sopra evidenziata formulazione, la disposizione in parola presta il fianco a una difficilmente superabile preclusione di fondo: la norma, in effetti, non risulta affatto compatibile con la definizione di stabile organizzazione dettata dal Modello Convenzionale dell’OCSE (art. 5).

Nello specifico, il paragrafo 42.3 del commentario relativo a tale articolo, precisa che non sussiste una stabile organizzazione nell’ipotesi in cui il soggetto effettui prestazioni di commercio elettronico, o eroghi servizi elettronici, senza alcuna presenza fisica nello Stato ove sono localizzati i clienti. Ciò, perché detto soggetto (content provider) si avvale esclusivamente dello spazio virtuale (fornito dal service provider), che gli viene messo a disposizione su un determinato server; e detto spazio virtuale, per mancanza di fisicità, non potrà quindi mai essere considerato come una sede fissa di affari.

Orbene, considerato che la disposizione sarebbe in contrasto con la previsione convenzionale e che detta seconda fonte legislativa prevale in caso di contrasto con la prima, risulta ovvio che – salvo non intervengano ulteriori aggiornamenti in merito a livello di Modello Convenzionale OCSE – la norma potrebbe al più trovare applicazione solo in assenza di una specifica Convenzione internazionale (bilaterale o multilaterale) contro le doppie imposizioni. Ovvero, in un numero irrisorio di fattispecie e, comunque, di sicuro non nei confronti delle menzionate OTT; vale a dire proprio quelle multinazionali contro le quali la legge è stata – in realtà – pensata.

Analogamente, a livello di web tax internazionale, qualunque riformulazione del concetto di stabile organizzazione che consenta un corretto livello di tassazione delle web companies, non può prescindere da una preventiva modifica dei vari trattati; questione difficilmente realizzabile negli stretti tempi indicati durante il vertice di Tallin, se pensiamo a quanto si stanno dilungando i tempi solo per attuare la progressiva sostituzione dello strumento bilaterale con quello multilaterale richiesto in sede OCSE/G20.

Considerazioni finali

Tirando le somme, dunque, in entrambe le suddette principali opzioni percorribili, il giudizio sulla web tax resta fortemente negativo.

Prima, però, di concludere, corre l’obbligo di rappresentare come, nell’attuazione sostanziale del progetto congiunto di Italia, Germania, Francia e Spagna, potrebbe invece recitare un ruolo decisivo l’applicazione delle – recentemente riviste – direttive per eliminare la disparità di tassazione fra i vari Paesi:

-          I step: CCTB – Common Corporate Tax Base (documento COM/2016/0685)

-          II step: CCCTB – Common Consolidated Corporate Tax Base (documento COM/2016/0683)

Tali direttive sposano il principio del formulary apportionment approach, il quale prevede l’individuazione di alcuni income-creating criteria (costo del lavoro, asset, fatturato) da inserire in una formula in grado di suddividere la base imponibile tra le differenti Giurisdizioni UE coinvolte. Al riguardo, il Committee on Economic and Monetary Affairs del Parlamento europeo ha approvato alcune interessanti modifiche, quali:

-          l’introduzione di un ulteriore parametro di riferimento aggiuntivo, rappresentato dalla “raccolta e utilizzo per fini commerciali dei dati personali degli utenti di piattaforme e servizi online in uno o più Stati membri”, onde cercare di assicurare l’applicazione delle CCTB e CCCTB pure alle attività digitali;

-          l’estensione della nozione di asset al fine di ricomprendervi anche quelli immateriali;

-          la riformulazione del generale concetto di residenza fiscale per i soggetti non-UE e l’applicazione delle direttive anche alle stesse società non-UE “con riguardo alle attività digitali specificamente rivolte ai consumatori o alle imprese di uno Stato membro” (così prefigurandosi come una sorta di condizione prodromica da soddisfare, rispetto all’attuazione di un’ipotetica “web tax”, sia essa perseguita come Equalization Tax o come ridefinizione del concetto di stabile organizzazione): in concreto, una società con presenza digitale che raccoglie o utilizza i dati personali degli utenti di piattaforme e servizi online per fini commerciali, è considerata residente nello Stato membro in cui risiede l'utente di cui raccoglie o utilizza i dati personali.

È noto a tutti che se, in Europa, i Paesi non si facessero concorrenza fiscale generando un ribasso delle aliquote fiscali, e se il sistema dei trattati internazionali non consentisse triangolazioni con Paesi a fiscalità privilegiata, il problema potrebbe essere eliminato alla radice. Per meglio esplicitare il pensiero, se la CCCTB prevedesse l’obbligo per gli Stati membri di poter stabilire la propria aliquota di imposizione – quanto meno – entro un ristretto e predeterminato range, l’attuale sistema di delocalizzazione relativa alle fonti di produzione del reddito non avrebbe più sufficiente interesse per i grandi gruppi: come suol dirsi, il gioco non varrebbe la candela.

Attualmente, però, l’armonizzazione riguarda solo l’imposizione indiretta e non si può certo pensare di recuperare il gettito che dovrebbe essere generato dalle imposte dirette con dei tributi di tipo indiretto (considerazione che vale tanto più laddove si ipotizzi l’inizialmente citata Equalization Tax).

Come ben sappiamo, i presupposti impositivi sono completamente differenti: l’IVA colpisce i consumi; le imposte dirette, invece, il reddito (ossia, ricavi meno costi). Il nostro ministro Padoan, pur di cercare di sfruttare una propaganda populista fondata sul più classico degli esempi di captatio benevolentiae dell’opinione pubblica, parte da un livello minimo di gettito che si intenderebbe raggiungere, per poi valutare se ottenerlo mediante delle imposte dirette, ovvero indirette.

Un ragionamento simile è economicamente illogico e inadeguato, e non può che essere destinato al fallimento nella sua pratica attuazione, essendo privo di basi giuridiche internazionali e sostanziali, che garantiscono (vivaddio!) le quattro libertà fondamentali sulle quali si regge l’Unione europea: la libera circolazione delle merci, delle persone, delle prestazioni di servizi e dei capitali.

Per quanto, in Italia, ormai ci siamo abituati con naturalezza al fatto che non esiste più alcuna certezza del diritto e che il governo, per far tornare i conti, può limitarsi a inventare di sana pianta delle nuove forme di prelievo fiscale prive di qualunque supporto costituzionale, ciò non appare certo ipotizzabile a livello europeo (tanto meno, mondiale). Anche perché la variabile fiscale, specie per le grosse multinazionali, costituisce un fondamentale business cost che influisce in maniera particolarmente rilevante sul risultato economico complessivo; e non è pensabile che un siffatto illegittimo modo di agire possa sperare di passare sotto silenzio, una volta che sia portato all’attenzione e al vaglio delle corti di giustizia internazionali (le quali, almeno in linea di massima, tendono a non emettere sentenze “politiche”, come viceversa spesso è solita fare la nostra Cassazione).

Il summit di Tallin si è chiuso con la manifestata volontà nei confronti dell’opinione pubblica di volersi finalmente occupare della lotta all’elusione internazionale perpetrata nel settore dell’economia digitale, dichiarando di voler risolvere il problema a breve termine. C’è solo un “piccolo” dettaglio: non è stato definito il mezzo attraverso cui conseguire l’obiettivo.

Ecco allora che, tenuto conto anche dei nuovi scenari che si andranno fra poco a comporsi dopo la conclusione della Brexit, anziché intestardirsi a tutti i costi sulla nuova web tax (come dimostra di voler fare il ministro Padoan), prospettando delle strade che non appaiono né giuridicamente (Equalization Tax) e né materialmente (ridefinizione del concetto di stabile organizzazione fine a sé stesso) percorribili (quanto meno nel breve termine), l’immediata applicazione delle anzidette direttive CCTB e CCCTB con quei piccoli opportuni aggiustamenti del caso, unitamente a un’appropriata revisione dell’Action 1 sulla Digital Economy predisposta dal duo OCSE/G20 nell’ambito del progetto BEPS, potrebbero risolvere il problema e consentire di raggiungere nella sostanza gli scopi prefissati, senza lasciare nemmeno il tempo alle OTT di organizzarsi adeguatamente e di predisporre le eventuali contromisure.

Si tratta, evidentemente, di una nostra modestissima opinione (seppure, condivisa da Autorevoli esponenti); resta, però, il fatto che la web tax, così come attualmente ipotizzata, semplicemente, è sbagliata, sia in punto di diritto che nella sostanza, per le ingiuste ricadute che produrrebbe a danno di tutti i fruitori dei beni e dei servizi della digital economy.

In conclusione, non si deve mai venir meno al seguente irrinunciabile principio etico di comportamento:

gli oneri conseguenti alla soluzione di problemi che i governi non sono stati in grado di risolvere, non possono e non devono mai (quale che ne sia la scusa ufficiale) ricadere sulle spalle dei cittadini incolpevoli, nel nome di una fantomatica propagandata lotta all’evasione fiscale, per l’esclusivo tornaconto delle casse erariali.

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