Paolo Soro

Mamma, ho perso l’aereo!

L'Alitalia al redde rationem

Nella simpatica commedia americana, record d’incassi al botteghino, il piccolo Macaulay Carson è un passeggero che perde l’aereo per ben due volte. Gli autori, nonostante il successo ottenuto in entrambe le occasioni, hanno ritenuto che non sarebbe stato più credibile fargli mancare il volo anche in una terza circostanza.

In Italia, invece, per la terza volta nel giro di nove anni (2008 – 2013 – 2017), il personale dell’Alitalia (e non solo) “perde l’aereo”.

L’affair Alitalia è una tipica storia di ordinaria follia tutta italiana (in qualunque altro Paese del mondo non si sarebbe mai potuta verificare), in cui l’ingiustificato spreco del denaro pubblico raggiunge livelli inusitati ed esemplifica in sé tutte le cause per le quali i cittadini e le imprese nazionali subiscono costantemente una pressione fiscale amorale, senza che ciò riesca comunque ad arrecare alcun positivo effetto sul PIL, così contravvenendo a qualsivoglia basilare legge naturale di economia, né, tanto meno, sul mondo del lavoro in generale.

Per noi, economisti d’impresa, sarebbe in effetti inconcepibile mancare in misura tanto grossolana un business plan di così grande portata. Ma, soprattutto, considerati gli aiuti di Stato ricevuti, sarebbe fuor di dubbio che tali errori ci avrebbero procurato un indesiderato soggiorno come ospiti delle patrie galere. Evidentemente, c’è qualcosa di profondamente sbagliato se, viceversa, gli artefici di queste “imprese” sono stati premiati e possono starsene sdraiati in qualche spiaggia esotica, scialacquando i benefit percepiti quale mercede di palese incompetenza.

Ripercorriamo brevemente questa incredibile concatenata serie di inaccettabili decisioni.

Correva l’anno 2008 (ossia, il tragico anno zero della grande crisi economica europea), allorquando, il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alla richiesta di acquisizione dell’Alitalia da parte di Air France, preferiva il salvataggio effettuato da una cordata di imprenditori nazionali: “L’Italia non può restare senza una compagnia di bandiera”. Proclami che in realtà avevano una valenza solo elettorale, considerato che Air France, dopo, si unì agli altri commensali invitati dall’ex premier al banchetto per l’Alitalia.

Questi “capitani coraggiosi” si dimostrarono così tanto valenti e valorosi che – ovviamente – rischiarono nell’operazione i soldi dei contribuenti italiani; non certo i loro. D’altronde, si trattava di imprenditori talmente bravi, che dovevamo solo ringraziarli per aver accettato di correre al capezzale del moribondo vettore aereo nazionale del trasporto passeggeri; seppure, non va sottaciuto, a fronte di compensi da far invidia al prima menzionato bambino prodigio del cinema hollywoodiano. Per chi lo avesse dimenticato, i manager che entrarono nelle trattative per il recupero della compagnia di bandiera furono personaggi come: Colaninno, Marcegaglia, Ligresti, Geronzi, Caltagirone, Passera, De Benedetti, Riva, Angelucci, Tronchetti Provera, Benetton, Toto, Bracco, Cucchiani e Gavio, i quali ricevettero in dono la “parte attiva” dell’Alitalia (circa trecento milioni), lasciando allo Stato l’onere di “smaltire in maniera differenziata” le pregresse passività raccolte (oltre tre miliardi iniziali, ben presto lievitati a quasi cinque).

Ebbene, dopo un lustro, la situazione (c’era da aspettarselo) precipita di nuovo.

Questa volta, però, i soldi dei “soliti ignoti” non bastano. L’italietta malandata, alle prese con la disperata lotta contro la crisi sempre più profonda, falcidiata dall’avanzare della disoccupazione e dalla diminuzione delle Entrate in valore assoluto (nonostante l’incremento dell’imposizione tributaria e contributiva), deve chiedere aiuto allo straniero; anche perché, di tagliare drasticamente la spesa pubblica, davvero non se ne parla.

L’aiuto arriva sotto forma di petrolio arabo: Etihad accetta di acquisire il 49% della proprietà. Questa enorme iniezione di capitali emiratini consente al governo di circoscrivere le spese del secondo salvataggio dell’Alitalia, soltanto, a diverse centinaia di milioni; contro i sopra ricordati cinque miliardi che era costato il primo.

Evidentemente, però, la programmazione è stata ancora una volta completamente sbagliata; e, comunque, le capacità degli amministratori della compagnia non si sono dimostrate all’altezza dei compiti da svolgere. Fatto sta che, a meno di tre anni di distanza da quell’8 agosto 2014 in cui fu siglato l’accordo con Etihad, il barcone dell’Alitalia è di nuovo in balia dei marosi e, questa volta, sembra proprio che il naufragio non potrà essere evitato, salvo che non siano i lavoratori dell’azienda a partecipare in prima persona al bailout (pura utopia, solo pensarlo).

L’impresa, ogni anno, produce naturalmente perdite. L’indebitamento cresce senza soluzione di continuità. Non pare ci sia bisogno di un esperto contabile per capire che vanno rivisti drasticamente tutti i costi della produzione, atteso che il fatturato più di tanto non potrà dare, nonostante la ristrutturazione in stile “low-cost”, che ha talmente abbassato gli standard operativi, da rendere spesso e volentieri “indimenticabili” le esperienze dei passeggeri.

La compagnia di Abu Dhabi non ha avuto alcunché da eccepire nel momento in cui è stato posto il limite del 49% sull’azionariato: probabilmente, perché, in casa loro, questo è l’ordinario livello massimo prescritto dalle norme di legge locali per qualunque investitore straniero. Col senno di poi, però, sono in molti a pensare che proprio tale limite operativo abbia forse impedito il dispiegarsi di quell’autonomia direzionale necessaria per cambiare definitivamente la situazione e far conseguire all’azienda dei positivi risultati di gestione.

Quest’ultimo triennio di vita dell’Alitalia verrà, in sostanza, ricordato (almeno stando ad alcuni sondaggi recentemente pubblicati), per un deprecabile e insulso cambio di look nelle divise d’ordinanza, e per una svariata serie di modifiche al portale Internet, tese solo a complicare la vita degli utenti, sia per la farraginosità delle opzioni di utilizzo, sia soprattutto per i continui e ripetuti malfunzionamenti, che ultimamente si verificano con una frequenza minima settimanale; a testimonianza della scarsa preparazione tecnica pure di coloro che hanno ricevuto l’incarico di mettere mani al sito (viva la meritocrazia, sic!). E purtuttavia, entrambe le operazioni in discorso, di certo non sono state – né sono tuttora – esenti da spese.

Per carità, nessuno ha l’ardire di additare tali fattori come decisivi agli effetti delle perdite annuali di bilancio. Ciò che si vuole rappresentare, a mero titolo esemplificativo, è la totale assenza di professionalità nel condurre un’azienda di siffatta importanza e dimensione, in ogni sua decisione imprenditoriale: dalla più piccola alla più rilevante; elementi che testimoniano l’assoluta mancanza di una strategia economica globale, la quale – superfluo rammentarlo – dovrebbe essere questione non solo prioritaria, ma vieppiù indispensabile.

Premesso che, in situazioni di crisi come quelle in cui versa da anni l’Alitalia, occorre agire concretamente e contemporaneamente sia dal lato delle entrate che da quello delle uscite, una volta che si arriva a constatare la cronica anti-economicità dell’azienda, la strada da percorrere è obbligata: non ci sono né “se” e né “ma”.

Non siamo in grado di fornire consigli strategici ai manager di una compagnia area: gli esperti del settore affermano che l’errore è stato quello di focalizzarsi sull’operatività a corto raggio, mettendosi in competizione con le compagnie low-cost, anziché incrementare le rotte a media e lunga percorrenza, assai più remunerative.

Come appena premesso, non possiamo né avvallare e né contestare tali affermazioni. Resta il fatto che:

-          da un lato, quelli che teoricamente avrebbero dovuto essere dei capaci e preparati manager, hanno inanellato solo errori e causato una voragine in cui è stato risucchiato il denaro pubblico;

-          da altro lato, le compagnie low-cost non paiono affatto così in crisi (né, francamente, nella nostra personale veste di utenti “frequent flyer”, a parte talune limitazioni sui bagagli, abbiamo riscontrato così tante differenze tra l’Alitalia e vettori quali Ryan Air o Easy Jet); fatto che dimostra come, presumibilmente, il problema – che si tratti di compagnie aree o di qualunque altra azienda – sta semplicemente nel saper amministrare.

Siamo così giunti alla fatidica extrema ratio del piano di salvataggio; piano che, nelle intenzioni iniziali, comportava degli inevitabili grandi ridimensionamenti di tutta la forza lavoro (poi, parzialmente attenuati).

Finalmente, dopo un decennio di inutile e dannosa propaganda sindacale fondata solo sul paradigma: “l’azienda può fare tutto quello che vuole, basta che non licenzi, non metta in cassa integrazione e non tocchi nemmeno di una virgola i diritti acquisiti dai lavoratori”, anche le frange più rigide dei sindacati di categoria sembrano essere venute a più miti consigli.

Ebbene, è troppo tardi!

Il remedium ultimum partorito dal consesso costituito da management aziendale, governo e sindacati (branco di lupi alle prese con l’osso rimasto), è stato un piano di risanamento che ha comunque dovuto basarsi su importanti tagli del personale (per intenderci, di quelli che si eseguono con l’accetta, non certo col bisturi), a fronte solo di speranzose nuove proposte di gestione per il futuro. Il tutto previo parere favorevole dei lavoratori interessati, i quali avrebbero dovuto esprimersi mediante referendum. In soldoni, si è chiesto ai dipendenti di votare in merito al loro stesso licenziamento. Difficile stupirsi del risultato che, inevitabilmente, ha visto prevalere il “no”, a larga maggioranza.

Che succederà, ora?

Considerata l’impossibilità di un ennesimo salvataggio pubblico, come pure di un’ipotesi di nazionalizzazione del vettore, nonché avuto riguardo alla mancanza delle risorse per la copertura della cassa integrazione, appare scontato il commissariamento dell’Alitalia, salva la chimera di qualche ulteriore e – allo stato – impensabile intervento straniero. In caso contrario, si avvierà la procedura di liquidazione.

L’attuale A. D. di Alitalia ha rassicurato tutti in merito al fatto che, per il momento, non ci saranno delle ripercussioni sui voli e, dunque, i passeggeri non subiranno alcun ulteriore disagio. Difficile, peraltro, immaginare che, specie nei periodi di maggior affluenza di passeggeri, detti utenti non si troveranno a dover fare i conti con difficoltà operative ancora maggiori rispetto a quelle già fortemente penalizzanti che esistono oggigiorno. Come pure, appare assai improbabile che il personale di volo operi con quella doverosa serenità che non dovrebbe, invece, mai mancare in seno a chi svolge certi lavori a così alta responsabilità.

Tirando le somme, è certo che, dopo aver scialacquato, si calcola sino a oggi, oltre otto miliardi di euro di soldi pubblici nel tentativo di salvare in più occasioni l’Alitalia, tentativo risultato vano – ad avviso di chi scrive – fondamentalmente per la manifesta incapacità dei “salvatori” scelti (peraltro sempre lautamente remunerati), qualunque sarà il futuro che ci aspetta, è fuor di dubbio che l’operazione sarà nuovamente particolarmente dolorosa per le casse dello Stato: ossia, per il contribuente Pantalone.

Il governo voltagabbana, infatti, dopo aver sbandierato solo pochi giorni prima che, mai e poi mai, avrebbe dato corso all’aumento dell’IVA (non sarebbe giusto… colpisce tutti in egual maniera… e comunque i conti sono a posto: non c’è bisogno di alcuna manovra), torna immediatamente sui suoi passi e pubblica in GU il DL 50/2017 (la manovrina), norma che prevede un aumento scaglionato delle aliquote a partire già dal 2018, oltre che incrementi anche per le accise su benzina e tabacchi. Siccome, però, occorre in tutti i modi cercare di turlupinare il vulgus profanum, la norma assume una denominazione ingannevole e prevede un saliscendi di aliquote per tutto il prossimo triennio, così da rendere ancora più numerosi e complicati i correlati adempimenti contabili e fiscali: non c’è mai limite al peggio.

Certo che è davvero facile amministrare l’azienda Italia: quando i soldi non bastano a coprire le uscite, si incrementano i tributi e il gioco è fatto. Forse, seduti a scranna con la veduta corta d’una spanna, i medesimi baldi amministratori pubblici pensavano che sarebbe stato analogamente semplice far tornare i conti dell’Alitalia.

Cionondimeno, è lapalissiano come detto ultimo cambio di rotta sia stato una conseguenza diretta della débâcle subita con l’anzidetto piano di risanamento finale, bocciato dal personale.

Nell’ottica del “paga sempre Pantalone”, è quindi naturale che i contribuenti, in veste di potenziali passeggeri dei voli Alitalia, saranno a questo punto ben lieti di esclamare (sempre sulla falsa riga del noto sequel cinematografico):

-          Mamma, ho riperso l’aereo!

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