Paolo Soro

La festa dell’elusione è finita

La pacchia è finita, anche per le società multinazionali che, negli anni scorsi, sfruttando le possibilità offerte da legislazioni spesso tra loro non coordinate, sono riuscite a eludere miliardi di imposte.

Negli ultimi anni i colossi del web sono stati spesso sul banco degli imputati anche in Italia perché, a fronte di un fatturato italiano superiore ai 10 miliardi di euro, hanno versato all’erario meno di 10 milioni di euro di tasse, vale a dire meno dell’uno per mille. Un approccio che, su scala mondiale, fa sì che le tasse pagate da queste società non superino in media l’1% del fatturato.

Lo strumento più importante per spostare nei paesi a bassa fiscalità gran parte dei profitti è stato quello del transfer pricing, utilizzato non solo dalle società di telecomunicazioni ma da tutte le grandi società con sedi in paesi diversi. Non è un caso se due terzi delle operazioni mondiali sono infragruppo: utilizzando soprattutto i ricavi di marchi e royalties è facilissimo spostare gli utili prodotti da un paese in un altro meno esigente dal punto di vista fiscale. Ora, però, il giochino è finito. In particolare, dal 2015, da quando l’Ocse ha approvato il progetto Beps (base erosion and profit shifting) cioè una serie di raccomandazioni che hanno proprio l’obiettivo di contrastare questo tipo di elusione, commissionate dai governi del G-20. La più importante (e anche la più contestata di queste misure) è quella sul country by country reporting (cbcr) che obbliga le società con fatturato superiore a 750 milioni di euro a trasmettere ogni anno alle Agenzie fiscali dei paesi dove hanno le loro sedi, i dati su ricavi, utili, imposte pagate, numero dei dipendenti, e componenti patrimoniali. Dall’8 marzo è operativo anche in Italia il decreto ministeriale che detta le regole essenziali per questo tipo di reportistica.

Si tratta di uno strumento micidiale, che dovrebbe essere in grado in breve tempo di porre fine ai casi più clamorosi di aggiramento della disciplina fiscale. Anche se l’amministrazione finanziaria si è premurata di chiarire che i dati non saranno di per sé sufficienti a fondare un accertamento fiscale, è ovvio che se una società fattura un miliardo in Italia con utili netti di un milione e poi segnala di fatturare un miliardo in un paradiso fiscale con utili netti di 900 milioni, magari denunciando mille dipendenti in Italia e 10 nel paradiso fiscale, farà scattare immediatamente un campanello d’allarme che con tutta probabilità innescherà un accertamento fiscale approfondito. Sebbene i primi dati da trasmettere siano quelli relativi al 2016 è facile ipotizzare che le grandi imprese, consapevoli del problema da un paio d’anni, si siano nel frattempo impegnate per dare una decisa sterzata alle loro politiche di transfer pricing.

Non sono ovviamente mancate le critiche a un approccio così incisivo, a cominciare dal tema della privacy. I dati forniti alle diverse amministrazioni saranno infatti scambiati tra tutti i paesi aderenti all’accordo Ocse (in pratica tutti i paesi più sviluppati, con l’esclusione degli Usa che si aggiungeranno con un anno di ritardo), e potrebbero essere trafugati o (come insegnano le cronache recenti) consegnati da qualche impiegato infedele a testate giornalistiche o siti web più o meno affidabili. C’è inoltre la possibilità che l’evidenza di un comportamento poco compliant induca le amministrazioni fiscali a rivedere i risultati di accordi precedentemente raggiunti, magari attraverso ruling o patent box, creando così incertezze applicative con effetti devastanti. Altri prevedono un aumento del fenomeno delle doppie imposizioni, dei controlli e del contenzioso tra amministrazioni fiscali e società multinazionali.

Non c’è dubbio che le conseguenza di un simile approccio hanno bisogno di tempo per manifestarsi e potrebbero anche essere clamorose sotto diversi aspetti. Anche perché, oltre al Cbcr, le amministrazioni fiscali dei più importanti paesi si stanno dotando di altri strumenti analoghi. Il consiglio dei ministri del 10 marzo ha per esempio approvato un decreto legislativo per dare attuazione allo scambio automatico dei dati sui ruling preventivi. Di fatto le maggiori società saranno costrette a cambiare le loro politiche fiscali e, invece di versare l’1% di imposte come troppo spesso hanno fatto finora, contribuire alle casse pubbliche dei paesi dove fanno i loro affari con il 10 o il 20% dei loro utili, come fanno le società di minori dimensioni che non hanno mai potuto utilizzare questi artifici.

Fonte: Italia Oggi

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