Sul contrasto all'evasione dei giganti del web l'Unione europea preferisce aspettare.
E alla richiesta dell'Ocse di un intervento ex ante che limiti l'evasione dei colossi 2.0, risponde col monitoraggio e il sanzionamento in caso di accordi fiscali troppo di favore.
La valutazione dei beni intangibili è infatti ancora tutta da studiare.
Nella lotta alle frodi tributarie di società che si occupano di digitale Ocse e Ue si trovano su binari paralleli.
Se un'azione mirata volta a limitare alla fonte le scorciatoie è quanto chiesto dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (seppure non precisando in che termini i singoli stati debbano agire), l'Unione ha risposto con un'intensificazione dei controlli ex post, tradottisi nella contestazione di tax rulings eccessivamente sbilanciati a favore dell'impresa e di accuse legate all'abuso di posizione dominante nel commercio online.
È questo quanto emerge dallo studio «tax challenges in the digital economy» redatto dall'Ocse, il quale non si è risparmiato nemmeno nella valutazione dei patent box, definendoli come strumenti di orientamento in termini di tassazione della proprietà intellettuale.
Proprietà intellettuale che, assieme ai diritti d'autore e alle opere d'ingegno non posseggono un «nexus» materiale con l'area di produzione e sono quindi facilmente trasferibili in paesi con tasse a zero.
Tra le principali sfide fiscali individuate nello studio, la difficoltà nell'attribuire il valore realizzato o trasferito all'utente finale; la possibilità nel concludere affari senza la presenza fisica; e lo sfruttamento di modalità di pagamento nuove non tracciabili.
Così, mentre ad Amazon la Commissione ha contestato l'abuso di posizione dominante nel mercato degli e-book, su Apple ha dovuto allungare i tempi d'investigazione a causa di un volume eccessivo di materiale informatico da esaminare.
Infine il caso Google, al quale è stato rinfacciato lo sfruttamento della tecnologia Android per diffondere indirettamente i propri prodotti.
Fonte: Italia Oggi