Paolo Soro

Dieci anni di crisi economica

Trascorso un decennio dall’inizio della più grande crisi economica mondiale, sembra doveroso analizzarne gli effetti sul mercato del lavoro in Italia.

L’8 aprile 2010, il Wall Street Journal usciva con un articolo dall’emblematico titolo: Did "Great Recession" live up to the name? L’Autore confrontava la portata della famosa “Grande Depressione” del 1929 con la nuova crisi economica mondiale (originata negli USA, nel 2007, e giunta in Europa l’anno seguente), chiamata “Grande Recessione”.

Al di là della denominazione simile, a distanza di dieci anni possiamo dire che gli effetti provocati nei mercati (specie in quello del lavoro) dall’ultima crisi si dimostrano più persistenti e incisivi rispetto alle conseguenze causate dalla crisi del ’29; nonostante molti economisti continuino a giudicare l’ultima bolla immobiliare legata al fallimento dei Subprime di minore impatto.

E, probabilmente, hanno ragione; ma solo con riferimento agli Stati Uniti.

Se analizziamo la situazione a livello mondiale, è indubbio che, dopo dieci anni, la situazione economica e finanziaria permane particolarmente negativa; viceversa, la crisi del ’29 ebbe una durata assai inferiore.

In realtà, è il concetto stesso di “crisi” (volgarizzato in generica situazione di difficoltà finanziarie) che mal si addice a indicare l’enorme mutamento economico di cui siamo stati (e tuttora siamo) testimoni. In effetti, sono anni, ormai, che i c. d. esperti fanno bella mostra di sé nei media e continuano a propinarci le stesse frasi: “si intravvedono i primi segnali di ripresa, ma il percorso è ancora lungo”; “dobbiamo tenere duro ancora per qualche anno”; “non possiamo considerarci fuori dalla crisi”; etc.

La verità è che l’economia non è una scienza esatta; le variabili soggettive (dunque, imponderabili) che intervengono sono tante. In sostanza, in questa situazione, gli anzidetti esperti non sono in grado di rispondere in maniera convincente – semplicemente – perché non conoscono le risposte alle domande che vengono poste loro.

D’altronde, se l’economia è questione particolarmente indecifrabile, gli economisti sono una razza ancora più imprevedibile, presso cui non pare saggio riporre particolare fiducia. Dopo avere insegnato a tutti la macroeconomia ed essere stato considerato un vero e proprio guru del settore, a esempio, John Maynard Keynes è stato soppiantato dai “nuovi economisti” che consideravano, a dir poco, antiquate e prive di validità le sue teorie: gente come Friedrich August von Hayek (propugnatore del laissez faire, ossia della peggiore e illiberale ricetta utilizzabile in un’economia capitalista mondiale) è stato addirittura insignito del premio Nobel per l’economia. La verità sotto gli occhi di tutti è in realtà che il mercato, senza opportune leggi, non è mai in grado di auto-regolamentarsi.

Solo, in pratica, pochi anni fa, ossia dopo svariati anni di crisi economica (e decenni in cui i professori universitari insegnavano ai loro allievi le teorie di von Hayek e denigravano – salvo rarissime eccezioni – quelle keynesiane), il mondo dell’economia si è in gran parte ravveduto, ammettendo che gli insegnamenti di Keynes risultano ancora oggi gli unici che si dimostrino abbastanza affidabili.

Tutto questo per dire all’autorevole articolista del Wall Street Journal (con tutta la deferenza che ciò implica), che non si può paragonare la più grande crisi economica che il mondo capitalista abbia conosciuto (ossia, quella del 1929), con l’odierna situazione in cui non pare corretto nemmeno parlare di “crisi” in senso tecnico.

In effetti, ci troviamo di fronte a un naturale e incontrollabile riassestamento globale dei mercati, i quali, a seguito di opportune e maggiormente incisive normative, sono alla ricerca del loro reale punto di equilibrio, dopo che le manovre dei grandi poteri internazionali hanno volutamente, per personali tornaconti, falsato la realtà economica mondiale, facendo credere a tutti che detto punto di equilibrio fosse molto al di sopra rispetto a quello effettivo.

E il “caso italiano” (cresciamo troppo poco e lentamente) rappresenta l’emblema perfetto di tale nostro teorema.

Se è vero (come è vero) che il grado di bontà e di validità dell’economia è direttamente proporzionale alla sua capacità di generare occupazione (indipendentemente dalla tipologia della stessa che, inevitabilmente, cambia negli anni proprio col mutare dell’andamento economico), i dati legati al mercato del lavoro dovrebbero far riflettere non poco, confermando quanto appena scritto in merito alla generale situazione finanziaria che stiamo vivendo.

L’Istat, il Ministero del Lavoro e l’Inps hanno creato un sistema coordinato per realizzare quelle che hanno chiamato: “informazioni armonizzate, complementari e coerenti”. Orbene, dando alle dichiarazioni politiche il valore meramente propagandistico e per nulla reale che hanno, sarà bene perciò limitare la nostra analisi ai numeri puri e semplici.

Intanto, incominciamo col dire che occorre “leggere” i dati (specie quelli espressi in valori assoluti), a distanza di tanti anni, con la dovuta oculatezza: la popolazione muta quantitativamente e qualitativamente (calo delle nascite, espatri, immigrati, innalzamento dell’età media, etc.); i Paesi sono sempre più internazionali e i mercati a carattere maggiormente globale; la concorrenza aumenta in tutti i settori; il variare delle leggi implica modifiche negli ordinari comportamenti dei lavoratori; fluttuazioni temporali non sono da prendere in considerazione, in quanto dovute a variabili non durature; e via discorrendo.

L’Italia, all’inizio del 2008 (ossia allo scoppio della c. d. “crisi”), contava 59.619.290 abitanti; dieci anni dopo, gli abitanti sono diventati 60.483.973. Il numero degli occupati al termine del primo anno di crisi era sceso a 25,4 milioni, con una disoccupazione al 6%. Oggi, registriamo 25 milioni di occupati con un tasso “ufficiale” di disoccupazione pari quasi all’11%, nonostante i vari sgravi, esoneri, incentivi etc., nonché – soprattutto – nonostante le orde di giovani che vanno a cercare lavoro all’estero e coloro che, seppure sono restati in Patria, nemmeno si iscrivono più nelle liste dei lavoratori in cerca di occupazione (e che, dunque, rientrano un una terza categoria difficilmente controllabile: quella degli inoccupati).

Inoltre, giusto per rimarcare la correttezza del teorema appena sopra enunciato concernente la diretta corrispondenza tra qualità dell’economia e livello di occupazione, per quanto riguarda la variazione percentuale tra il primo semestre del 2008 e il primo semestre del 2017: il PIL registra un – 6%; le ore lavorate un -5,9%. Più nel dettaglio, alla fine del primo anno di crisi, il PIL era diminuito fino a 850 miliardi; oggi, continuiamo a stare sotto gli 800 miliardi. Le ore lavorate erano scese fino a 11,5 milioni a fine 2008; attualmente siamo ancora sotto gli 11 milioni.

Andando a vedere l’andamento dei grafici di riferimento nel decennio trascorso, si nota un deciso crollo nei primissimi anni di crisi, seguito a una fase altalenante, tendente a un leggero costante rialzo, pur restando tuttora nettamente al di sotto dei livelli pre-crisi. Tenuto conto dei provvedimenti adottati sia a livello nazionale, che comunitario, che mondiale, ciò significa a nostro avviso che i mercati, dopo essersi riassestati ritrovando il loro reale punto di equilibrio (assai inferiore rispetto a quello che risultava ufficialmente), hanno ripreso naturalmente ad ampliarsi, spostando man mano verso l’alto il nuovo punto di equilibrio, gradualmente ma – questa volta – sulla base di una corretta logica macroeconomica keynesiana, con regole nuove e più efficaci.

Peraltro, come testé evidenziato, ancora oggi, detto punto di equilibrio resta abbondantemente inferiore rispetto a quello di inizio della crisi, quanto meno per ciò che concerne la situazione degli occupati.

Non basta: i dati pubblicati dall’Ocse hanno rivelato che l’Italia è l’unico mercato europeo (insieme alla Grecia) dove la ripresa non ha favorito la crescita di professioni ad alto tasso di qualifiche, magari nell’ambito tecnico-scientifico. In Europa, si è infatti assistito, in media, a un aumento del 7,6% delle professioni ad alta qualificazione, contro il solo +1,93% di quelle a bassa qualificazione. In Italia, l’incremento delle due è stato praticamente identico: +4,78% le professioni ad alto tasso di qualificazione, +4,55% quelle a basso tasso di qualifiche. Fascia alta e fascia bassa aumentano allo stesso modo; anzi, in proporzione, la domanda di lavoro sembra orientata soprattutto verso il basso.

Nel rapporto sul mercato del lavoro, gli esperti economisti fanno notare che la naturale conseguenza del ciclo economico è la seguente: quando comincia una crisi, le imprese prima riducono le ore – tagliando gli straordinari, ricorrendo alla cassa integrazione e al part-time – e poi licenziano.

Ma, anche questo teorema enunciato dagli economisti fa “acqua”: nell’ultima fase, infatti, quella della (piccola) risalita, l’occupazione in realtà è aumentata più delle ore lavorate. La causa? L’aumento dei lavori part-time, che, però, a parere dell’Istat, non sarebbero dovuti a una libera scelta dei lavoratori, quanto piuttosto a delle decisioni imposte dalle aziende che – in detto ultimo caso – riguarderebbero sul totale un 19,1% per le donne e un 6,5% per gli uomini.

A incidere, inoltre, su detta modifica occupazionale – a parte l’avvento dell’innovazione tecnologica, dei robot, dell’automazione e così via – risultano essere i nuovi rapporti di lavoro brevi, ossia saltuari e/o precari (esempio: i fattorini/rider, i cassieri che lavorano solo la domenica, gli operai assunti per periodi in cui la produzione si intensifica etc.), che coinvolgono più di 4 milioni di persone, usando ogni strumento contrattuale a disposizione, dai contratti a termine alle partite Iva (nel recente passato, come noto, erano i contratti a progetto, i voucher e simili).

Il rapporto Istat, da questo punto di vista, non ci dice nulla che già non sapevamo: gli sgravi contributivi concessi negli anni hanno influenzato i numeri dei rapporti di lavoro permanente. Dopo di che, finiti gli incentivi, i lavori a tempo determinato hanno di nuovo registrato una crescita record, complice anche la paura dei datori di lavoro di dover pagare pure l’iniquo ticket sui licenziamenti per finanziare la Naspi: non solo lo Stato ha tolto l’ancora di salvezza della nota “407”, ma ha rincarato la dose di pressione – meglio, oppressione – obbligando le imprese, già in palese stato comatoso, a sovvenzionare l’indennità di disoccupazione a carico dell’Inps (come a dire: io, Stato, non riesco a gestire i miei enti previdenziali e mi rifaccio sui contribuenti).

Meglio non proseguire in tal senso, che rischiamo di andare “fuori tema”…

Tra gli altri dati evidenziati dal rapporto Istat, un ulteriore elemento che per chiunque operi nel mercato del lavoro non rappresenta certo una sorpresa è la ripartizione all’interno della nazione: il nord, con il 66,7% di occupati di oggi contro il 66,5 del 2008, ha recuperato i livelli di 10 anni fa; il sud viceversa è ancora molto indietro rispetto alla situazione precedente alla crisi.

Infine, appare doveroso dare un’occhiata ai livelli salariali. Ebbene, depurate dall’inflazione, le retribuzioni pro capite del 2017 sono più basse di 600 euro rispetto a quelle del 2007. Ciò, evidentemente, non può che incidere a catena sul livello dei consumi e sull’abbassamento della redditività generale nel settore del commercio; seppure, non in modo direttamente proporzionale (come giustamente rilevava Keynes), posto che intervengono anche fattori umani legati ai condizionamenti psicologici che guidano le scelte dei consumatori.

Dunque, in quest’ottica, non solo non abbiamo fatto passi avanti, ma siamo andati indietro: si lavora meno e per meno soldi.

Anche gli economisti del Fmi, ora, hanno cambiato idea: per anni hanno stimolato le politiche favorevoli alla riduzione del costo del lavoro per aumentare la competitività; ma non hanno considerato adeguatamente determinate variabili (quali: l’aumento delle disuguaglianze, il fatto che il lavoro non basta più a garantire l’uscita dalla povertà, le tensioni sociali, etc.). Adesso si accorgono della prioritaria necessità di conseguire innanzitutto l’equilibrio complessivo del sistema economico, e, per fare ciò, l’opportunità connessa con l’aumento dei livelli salariali (forse, peraltro, dimenticandosi che in Paesi come l’Italia i datori di lavoro sono obbligati a mantenere basse le retribuzioni, esclusivamente a causa dell’incidenza spropositata delle correlate imposte e contribuzioni obbligatorie).

A dire che la storia si ripete: come nel citato “caso Keynes”, si scredita chi ci è superiore perché non si è in grado di comprenderlo, o peggio perché si vuole in qualche modo dimostrare di essere migliori; salvo, poi, di fronte al peggio, fare immediatamente marcia indietro, cercando di uscirne in qualche modo, scaricando le proprie colpe e inefficienze sugli altri.

Francamente, questo mondo economico tende sempre più ad assomigliare a una grande mongolfiera: tanta aria per volare alti, nessuna concreta idea per salvarsi dal precipitare una volta sgonfiati.

A noi molto immodestamente pare (ma, ovviamente, trattasi di opinione personale) che, se chi ha lo scettro del comando scegliesse i propri esperti tra coloro che evitano i riflettori preferendo occupare il proprio tempo a studiare, e cercasse in loro come prima indispensabile qualità, la modestia (oramai merce rarissima), qualcuno dei tanti danni causati si sarebbe potuto evitare e anche queste c. d. “crisi” risulterebbero ampiamente ridimensionate, consentendo un corretto e naturale funzionamento di tutti i mercati, in primis quello del lavoro.

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