Paolo Soro

LA LEGGE MORALE – IL DOVERE PER IL DOVERE

la legge morale intera

1.         La formazione della legge morale

Estratti:

La filosofia morale è una riflessione, quasi una sorta di indagine speculativa, sul corretto agire. Tale filosofia si pone come obiettivo quello di accertare quale sia il nostro dovere. In pratica, come devono essere inquadrate le nostre azioni per essere considerate giuste e tendenti al conseguimento del bene generale. Dunque, come individuare il bene generale e quale sia la legge (ossia quell’insieme di norme e di regole) che dobbiamo seguire per realizzarlo.

La morale è ovunque la stessa; non cambia in relazione al soggetto, ma tiene conto solo dell’oggetto, della realtà a cui viene applicata.

Al di là del fatto che, statisticamente, si predica bene ma si razzola male, ovverossia sono proprio coloro che hanno da celare comportamenti tutt’altro che etici a puntare il dito sul moralismo, accade in vero assai spesso, che si confonda l’agire moralmente con l’essere un moralista (in senso spregiativo): è morale solo colui che si comporta in maniera morale di fronte ai casi della vita; non chi si limita a giudicare, con eccessiva intransigenza e ipocrisia, la moralità altrui; salvo, poi, magari adottare comportamenti tutt’altro che morali.

Compito dell’etica è quello di stabilire, attraverso una libera discussione, quali desideri possono essere soddisfatti senza creare conflitti e infelicità. Il concetto di dovere, quindi, si pone in questi termini: rispettare i bisogni e i desideri altrui e non creare infelicità al nostro prossimo. Per il resto l’uomo può avere tutto il diritto di mantenere una propria libertà di comportamento, indipendentemente da quella che potrebbe essere la moralità validamente riconosciuta nella comunità a cui appartiene.

Domanda: cosa occorre per la formazione di una legge morale?

Possibili risposte:

-           Il sentimento? No di certo: la morale è oggettiva; il sentimento è puramente soggettivo, non potrebbe aiutarci.

-           Il piacere? Ancora no: è anch’esso quasi esclusivamente personale; il piacere vero può essere solamente quello generale che si ottiene applicando una morale altrettanto universale.

-           L’autorità religiosa? Evidentemente no: innanzitutto si tratterebbe di una morale trovata esternamente all’uomo (eteronoma), attraverso dogmi imposti non si sa bene da chi (nella migliore delle ipotesi, da un essere metafisico; nella peggiore e più razionale verità storica, semplicemente da altri uomini – una sorta di classe dominante – per loro esclusivo interesse e tornaconto); ma soprattutto sarebbe comunque una morale valida soltanto per chi accetta questa autorità, cosa che è palesemente in netta contraddizione col principale requisito che deve possedere la morale, ovverossia: una validità oggettiva.

-           La ragione? Assolutamente sì: ci consente di perseguire una morale oggettiva ma, nello stesso tempo, autonoma; la ragione ci indica come sia doveroso agire (addivenendo, così, a una morale razionale); fermo restando che occorrerà purificare la ragione da condizionamenti ancestrali presenti in ciascuno di noi, derivati dall’esperienza individuale (dunque, troppo soggettiva e per ciò stesso nemica di ciò che aspiriamo a conseguire).

-           La libertà? Ancora sì: abbiamo già avuto modo di enunciare e dimostrare come la libertà assoluta esista solo se vi siano delle regole assolutamente morali; queste regole ci permettono di rispettare il nostro prossimo e, conseguentemente, di poter essere applicate in maniera oggettiva.

Kant non ci dice quale sia la morale universale, ma ci aiuta nella nostra ricerca, fornendoci alcuni precetti basilari.

I)          Agisci avendo cura di verificare se la tua azione può essere universalizzata: rubare, può essere categorico se muori di fame, ma non potremo certo definirlo universalizzabile; quindi, rubare non è senz’altro morale.

II)         Agisci in maniera da trattare l’umanità come un fine, non come un mezzo (qui, il pensiero kantiano denota l’influenza assorbita leggendo Rousseau): Macchiavelli, nel dare consigli di vita al “suo principe”, ricorda che questi dovrebbe porre maggiore attenzione al fine e non al mezzo; l’uomo deve ricordarsi sempre che il suo fine ultimo è il benessere degli altri, e non usare gli altri come mezzo per ottenere il proprio fine.

III)        Agisci in modo che la volontà umana, attraverso la ragione pura, possa instaurare una legislazione universale: la ragione è legge di sé stessa e per il suo tramite si può formare una morale generale.

Come si possono coniugare ragione e libertà individuale con la formazione di una legge morale universale?

Ebbene: quando sono convinto di fare la cosa giusta, quando avverto l’imperativo categorico di compiere ciò che reputo doveroso anche contro il mio stesso interesse personale, allora significa che la ragione ha vinto sulle passioni e, facendomi comprendere come l’imperativo morale sia da ritenersi universalmente incondizionato, mi ha liberamente condotto sulla strada di un agire eticamente valido.

2.         Morale ed etica

Estratti:

Seppure etica e morale vengano spesso confuse o scambiate come fossero esatti sinonimi nella pratica (tutti noi usiamo indistintamente espressioni come “non rubare è eticamente corretto”, oppure “non rubare è moralmente corretto”), se vogliamo pignoleggiare e riferirci al significato effettivo dei due termini, dovremo più precisamente concludere che: l'etica cerca di studiare delle regole oggettive in base alle quali poter definire i comportamenti corretti e buoni; la morale è la percezione che gli individui hanno sul fatto che determinati comportamenti siano corretti e buoni.

Ecco che possiamo, allora, affermare come lo studio della legge morale universale diventi l'oggetto principe dell'analisi dell'etica.

Le domande da porsi sono: esistono e, se esistono, quali sono i valori intrinseci nell'uomo e validi per tutti? E' giusto cercare di forzare una condivisione di quei valori che non risultano comuni a tutti? Difficilissime le risposte. Di certo tutti i conflitti del pianeta fanno intuire come la strada sia molto lunga e problematica; seppure sia quella giusta.

Un sistema generale di nobili ideali è senza meno teoricamente impeccabile, per quanto assai difficile da realizzare nella quotidianità. Ma se un giudizio etico non è capace di guidare la vita pratica, quella di tutti i giorni, allora soffre di un difetto di forma, perché l'etica è per definizione "filosofia pratica".

Ma l'etica si occupa anche della determinazione di quello che può essere definito come il senso dell'esistere umano, il significato profondo etico-esistenziale della vita del singolo e del cosmo che lo include. Anche per questo motivo è consuetudine differenziare i termini “etica” e “morale”. L'etica sarà allora quella parte di filosofia che si occupa del comportamento di un singolo essere umano nei confronti di tutti i suoi simili. Laddove la morale venga intesa come quella soggettiva esistente all’interno di una singola collettività, l’individuo potrebbe (e dovrebbe) distaccarsene perché il dovere è quello di agire moralmente in assoluto, e non solo all’interno del proprio gruppo. Sulla base di tale punto di vista, dunque, si è etici senza necessariamente seguire la c. d. morale della comunità di cui si fa parte; così come si è moralisti senza avere idea di quale sia la propria etica, ossia la propria idea di giusto o sbagliato.

Si può dire che la morale è una guida puntuale nell'aiutarci a vivere meglio?

Attenzione a rispondere a questa domanda. Chiunque voglia farlo abbia cura di non farsi condizionare proprio da una sua morale soggettiva.

La risposta da dare, a mio avviso, è:

Sì, laddove la morale sia quella oggettiva e razionale che si basa sul rispetto degli altri e fintantoché l’individuo sia cosciente che tali tipologie di comportamenti siano un suo preciso dovere; proprio perché è solo attraverso il compimento di questo dovere che si persegue il fine ultimo dell’umanità, ossia il bene comune che, in quanto tale, è anche il bene del singolo.

3.         Morale e religione

Estratti:

"Se io sostenessi che tra la Terra e Marte ci fosse una teiera di porcellana in rivoluzione attorno al Sole su un’orbita ellittica, nessuno potrebbe contraddire la mia ipotesi purché io avessi la cura di aggiungere che la teiera è troppo piccola per essere rivelata persino dal più potente dei nostri telescopi. Ma se io dicessi che – posto che la mia asserzione non può essere confutata – dubitarne sarebbe un’intollerabile presunzione da parte della ragione umana, si penserebbe giustamente che stia dicendo fesserie. Se però l’esistenza di una tale teiera venisse affermata in libri antichi, insegnata ogni domenica come la sacra verità e instillata nelle menti dei bambini a scuola, l’esitazione nel credere alla sua esistenza diverrebbe un segno di eccentricità e porterebbe il dubbioso all’attenzione dello psichiatra in un’età illuminata o dell’Inquisitore in un tempo antecedente.” (Bertrand Russell).

Che differenza c’è in quello in cui si crede, se è comunque indimostrabile e, da un punto di vista razionale, parimenti dubitabile?

Personalmente, sono sicuro del fatto che l’equazione “morale = religione” è errata; e non solo da un punto di vista meramente matematico. D’altronde, occorre riconoscere che anche il fervente credente cristiano Kierkegaard, la pensava come me laddove affermava: “Bisogna fondare la nostra esistenza su principi religiosi, non etici”. Ovviamente, superfluo precisarlo, sono di avviso esattamente opposto. Resta, però, il fatto che concordiamo sulla questione di fondo: la morale è qualcosa che non ha nulla a che vedere con la religione; anzi…

È del tutto comprensibile che in tempi antichi l’uomo, presa coscienza della propria irrilevanza e impotenza rispetto al cosmo, abbia cercato di “giustificare” la sua presenza nel mondo e, soprattutto, abbia cercato nella speranza di una vita ultraterrena il conforto di un qualche fine ultimo che potesse non farlo sentire così inutile e meschino all’interno dell’universo. L’uomo (per quanto è dato di sapere) è l’unica specie dotata di ragione e intelletto e non può accettare di credere che la sua venuta al mondo si risolva soltanto in una – spesso – misera esistenza. Per questo motivo, le religioni hanno avuto facile gioco nel plasmare le menti paurose della morte che cercavano un significato diverso e più “alto” per la loro essenza. Così come, solo a motivo di talune credenze, tanti uomini hanno accettato di morire per una qualche non meglio identificata “nobile” causa, quasi senza colpo ferire. Orbene, fermo restando che l’importanza dell’uomo non risulta, a mio parere, per nulla svilita dalla mancanza di una vita ultraterrena e dalla temporaneità dell’esistenza, le conoscenze e il grado di cultura attuale non dovrebbero permetterci di continuare a credere a Babbo Natale e alla Befana. E comunque, in quanto esseri naturali, appartenenti alla natura e connaturati con essa, semmai, ci sarebbe da meravigliarsi se la nostra vita potesse essere eterna: tutto in natura nasce e muore; inutile inventarsi Dio. Se sai che qualcuno ti ucciderà in ogni caso, continuare ad accondiscendere i suoi capricci nella vana speranza che non lo faccia è cosa del tutto irrazionale e senza senso.

Parlando dei cristiani, essi sostengono che la loro fede fa del bene mentre le altre fanno del male; ossia, la loro fede è morale, le altre non lo sono.

Possiamo definire la “fede” come la ferma credenza in opinioni sprovviste di prove: laddove c’è l’evidenza, nessuno parlerà mai di avere “fede” (credere); non ce ne sarebbe alcun bisogno. Non dico a mio figlio che deve avere fede sul fatto che due più due fanno quattro: glielo dimostro praticamente; come pure, che il nostro pianeta è rotondo; che la forza di gravità attrae verso il suolo qualunque oggetto lasciato cadere nel vuoto; che l’acqua bolle alla temperatura di 100°; e così via. Quando non abbiamo alcuna evidenza, l’unica possibilità che resta per convincere gli altri di qualcosa è quella di usare il sentimento emotivo. Ma questo può portare al conflitto, posto che ciascun gruppo sostituirà all’evidenza la propria differente emozione. I cristiani credono nella resurrezione del loro profeta Gesù e nella Bibbia; i musulmani credono nel profeta Muhammad e nel Qur’an. Nessuna di queste fedi può essere difesa sulla scorta di argomentazioni razionali; perciò, entrambe si devono affidare alla propaganda e, se necessario, alla guerra. In questo, sono esattamente uguali, come testimonia la storia.

Parrebbe indubbio, per persone dotate di una seppur minima moralità, considerare gli esseri umani tutti uguali (io aggiungerei anche gli esseri animali, ma capisco che sarebbe chiedere troppo). Per la religione cattolica, invece, non è così. Le differenze – per grado di importanza – ci sono persino tra gli uomini e le donne. Sarò pure particolarmente permaloso, ma, se fossi donna, mi sentirei particolarmente offeso e assai difficilmente potrei credere che certi dogmi cristiano-cattolici possano essere moralmente accettabili.

Come ricorda molto bene il matematico e logico italiano Piergiorgio Odifreddi, la donna, infatti, è considerata poco più di niente da tali precetti. Già a partire dalla Trinità: le tre persone più importanti della religione sono tutte maschi. Genesi: “La donna è stata creata per l’uomo”. Esodo / Decalogo: “La donna è fra i possessi dell’uomo, insieme ai servi e agli animali domestici”. La parola ebraica per “marito” significa “padrone”. La preghiera dell’Ebreo recita: “Ti ringrazio, Signore, di non avermi fatto donna”. Per i Padri della Chiesa, la donna è ad opus generationis ordinata (ossia, esiste nel mondo solo per procreare). San Paolo, nella sua lettera ai Corinzi (Nuovo Testamento), dice che Dio sta all’uomo come l’uomo sta alla donna. E per arrivare ai tempi nostri, i papi moderni continuano a vedere la donna come essere meramente obbligato a fare la sposa e la madre; neanche lontanamente paragonabile all’uomo. La posizione della Chiesa cattolica è che le donne non possono essere preti o vescovi.

L’importante è che non si sappia: questa è sempre stata l’unica morale cattolica. E per ottenere questo la chiesa si è inventata l’Index Librorum Prohibitorum (ossia, l’indice dei libri proibiti, da cui il noto detto: mettere all’indice, cioè, eliminare). L'apologetica cattolica lamenta che i fedeli leggano poco i testi dei loro pastori. Personalmente, reputo che siano lagnanze incaute, poiché niente meglio di questi testi, come potrà verificare chi avrà la pazienza di leggerli con attenzione, mina la credibilità del cattolicesimo mostrando la sequela di concezioni inaccettabili, discutibili, assurde, spesso contraddittorie, ma soprattutto anacronistiche e immorali.

Ma la morale cattolica (oggettivamente, tutt’altro che liberale) non ci dice solo quello che dobbiamo e/o possiamo leggere, ci impone anche come dobbiamo vivere, come dobbiamo crescere ed educare i nostri figli, finanche quello che dobbiamo mangiare. Tutte cose che – affermano – costituiscono il volere e la parola del Signore, ovverossia, sono riportate nelle Sacre Scritture (evidentemente, mi devono essere sfuggite mentre cercavo di farmi una cultura in proposito, perché non ve ne ho trovato traccia).

Come già l'ebraismo, la chiesa non ritiene morali gli atti omosessuali. Nel 2005, la Congregazione per l'educazione cattolica ha emesso un'istruzione circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini sacri:

“Questo Dicastero, d'intesa con la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ritiene necessario affermare chiaramente che la Chiesa non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay.” E se scoprono questa – per così dire – “vocazione” quando sono già preti, vescovi etc.: che succede? Niente?

La chiesa cattolica, analogamente ad altre confessioni, ritiene l'aborto assimilabile a un omicidio e contestualmente biasima legislazioni e manipolazioni scientifiche (come la sperimentazione embrionale) che favoriscono, promuovono o sostengono tale pratica. La donna deve accettare il volere di Dio e partorire, sempre e comunque, il “figlio della colpa”. Né, tanto meno, risulta moralmente accettabile per la chiesa cattolica fare ricorso a metodi anticoncezionali. L’aborto è stato paragonato da Giovanni Paolo II all’Olocausto. Personalmente, reputo vi sia qualche differenza tra l’abortire e gettare un bambino dentro un forno. Evidentemente, abbiamo due opinioni differenti. La mia morale è un’altra cosa; e spero vivamente di non essere il solo a pensarla in questo modo.

Le buone azioni si devono compiere spinti da precetti morali, non per la paura di finire all’Inferno.

4.         Morale e giustizia

Estratti:

Posto che la giustizia si amministra mediante l’applicazione delle leggi vigenti e che alcune di queste leggi potrebbero non essere corrette da un punto di vista strettamente morale, la domanda che mi pongo è: se violare la legge non costituisce di per sé stesso un comportamento etico, da un punto di vista morale, è giusto rispettare comunque tali leggi o dovrei piuttosto seguire i comandamenti morali anche se ciò dovesse comportare non osservare determinate leggi?

Lo scopo dei governi dovrebbe essere quello di fornire piacere a coloro che sono governati, non a coloro che governano.

Riemerge, quindi, con forza, l’insegnamento kantiano (ma anche russelliano) inerente l’imperativo categorico che prescrive l’inviolabile diritto delle persone a essere trattate sempre come fini e mai come mezzi per conseguire il proprio egoistico fine: ossia, il plus-benessere dei pochi a fronte del malessere dei molti (per parafrasare Marx).

Di certo, posti d’innanzi al diuturno degrado etico, appare quasi un’insormontabile montagna da scalare quella morale che ci impone di rispettare e praticare principi e ideali di giustizia, di legalità, di solidarietà, di libertà, di pace, di generosità, di carità, di onestà, di lealtà, di coraggio etc., tali da poter far valere le ragioni etiche e vedere finalmente trionfare la morale.

È un fine condiviso dall'umanità intera fin dai suoi albori quello che nel mondo debba regnare la giustizia. Ma nel momento in cui si tenta di definire in che cosa essa consista – e, quindi, in base a quale criterio si debba giudicare qualcosa come giusto o ingiusto – emerge un profondo disaccordo.

Oggigiorno, dopo un dibattito durato secoli, non si è ancora arrivati a definire in modo univoco i principi della giustizia. Sembrerebbe imporsi quel relativismo che rinuncia al concetto di giustizia. Così, di fatto, il concetto di giustizia stesso appare tramontato.

Definito il contesto ideale in cui gli esseri umani dotati di ragione e di senso morale potrebbero accordarsi sulla scelta equa dei principi di giustizia, Rawls procede a indicare in concreto tali principi. Naturalmente, si tratta pur sempre di una scelta etica, che ha il compito di prospettare solo alla lontana una determinata società politica. In altri termini, i principi di giustizia che stiamo per tratteggiare non vanno intesi come norme di comportamento pratico: essi sono dei criteri orientativi di carattere etico, bisognosi di essere ulteriormente tradotti in termini di prassi politica e istituzionale, una volta che gli uomini abbandonino la condizione originaria e il Velo di Ignoranza. Il primo principio afferma che ogni persona ha un uguale diritto al più esteso sistema di libertà fondamentali, compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti gli altri. Il secondo principio sostiene che le ineguaglianze economiche e sociali, a esempio nella distribuzione del potere e della ricchezza, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ognuno (in particolare per i membri meno avvantaggiati della società) e se sono collegate a cariche e posizioni aperte a tutti. Rawls ha dato varie formulazioni dei due principi, ma l'aspetto più importante e comune a tutte è il fatto che la scelta deve prescindere da intenti particolaristici (pensare a sé stessi) o utilitaristici (pensare alla maggioranza), e deve invece essere compiuta in nome dell'universalità della natura umana. In questo senso, non è ammissibile che "alcuni abbiano meno affinché altri prosperino"; ciò può essere utile, ma non è giusto (è questo il succo della critica rawlsiana all'utilitarismo). Invece: "I maggiori benefici ottenuti da pochi non costituiscono un'ingiustizia, a condizione che anche la situazione delle persone meno fortunate migliori in questo modo".

Ritornando al contratto sociale, secondo il Giusnaturalismo (corrente di pensiero da cui discendono le teorie appunto del contratto sociale), se il diritto ha un fondamento naturale, esso deve fare riferimento a uno stato di natura (reale o ideale) che preceda la costituzione della società civile. Oltre a ciò, in quanto opposta allo stato naturale, la società civile (o Stato) esprime una condizione artificiale e convenzionale, nascendo da un patto o contratto. Quest'ultimo contiene in sé due momenti (che possono essere intesi in senso logico o cronologico): un patto di unione con cui gli individui stabiliscono di entrare in una società politica e un patto di sudditanza con cui essi si sottomettono a un'autorità sovrana, definendo contemporaneamente la forma di governo in cui si dovrà esprimere (monarchia, aristocrazia, democrazia).

Schematizzando quanto detto finora, a seconda dei differenti filosofi che hanno affrontato la questione, tra diritto e morale si possono ipotizzare tre tipi di relazione: la connessione, la distinzione e la separazione.

La connessione è rilevante quando è necessaria, in quanto tutti concordano che i contatti tra diritto e morale di fatto non mancano. Una connessione è necessaria quando nella definizione del diritto entrano a far parte elementi della morale (o viceversa), sicché appare impossibile definire l'una senza far ricorso all'altra.

La distinzione implica che il diritto e la morale possano ricondursi a un genere comune, di cui sono parti. Tuttavia, all'interno di quest'ambito comune, hanno un'autonomia concettuale relativa, cosicché l'uno (il diritto) potrebbe definirsi senza far ricorso direttamente all'altra (la morale), pur dovendo entrambi riferirsi allo sfondo comune.

La separazione è significativa solo quando è totale, cioè quando diritto e morale sono concepiti come entità assolutamente eterogenee. Infatti, la separazione tra diritto e morale ha tradizionalmente alle sue spalle l'abissale divisione humiana tra l’essere e il dover essere.

Naturalmente ognuna di queste tre possibilità è suscettibile di gradazioni diverse. Diritto e morale possono essere più o meno connessi, più o meno distinti, più o meno separati.

Riassumendo, la giustizia deve prevalere sempre sulla legalità; di conseguenza, si uniformerà alle leggi soltanto quando queste risulteranno essere fondate su indiscutibili principi etici, riuscendo realmente a tutelare i diritti del cittadino, il quale farà delle stesse leggi il proprio strumento di difesa. Se una giustizia è giusta non può che basarsi su indiscutibili valori morali; pertanto, laddove le leggi non fossero subordinate a questi ultimi, la loro applicazione corrisponderebbe di fatto a una non-giustizia.

Con ciò non voglio certo affermare che violare la legge possa trovare una sorta di qualche giustificazione morale (nulla è più lontano dal mio pensiero). Il punto, semmai, sta proprio in questo: laddove il diritto è fondato su valori morali, la giustizia (ossia, l’amministrazione delle leggi), non può che risultare eticamente indiscutibile e, qualunque violazione della legge, essere giudicata un illegittimo venire meno al proprio dovere; vale a dire, un comportamento per ciò stesso immorale.

Ergo, per tornare alle tre differenti posizioni di pensiero prima citate (connessione, distinzione e separazione), la mia opinione – conforme a quella del Maestro – è che diventa imprescindibile fare in modo che giustizia e morale siano in relazione di assoluta connessione fra di loro.

5.        Morale e libertà 

Estratti:

Il mondo dovrebbe essere caratterizzato da principi unanimemente condivisi e accettati.
Per chiarire il rapporto tra libertà e legge morale, Kant si serve di due espressioni:
-    la libertà è condizione sostanziale (ratio essendi) della legge morale, poiché non sarebbe possibile una moralità priva di libertà, dal momento che verrebbe meno la capacità del soggetto di essere libero, artefice delle proprie azioni e, di conseguenza, esse non potrebbero essere giudicate buone o cattive;
-    la legge morale, dal suo canto, è la condizione cognitiva (ratio cognoscendi) della libertà, nel senso che riesco a postulare la libertà solo grazie all'esperienza morale, in virtù della quale, appunto, mi percepisco come libero: sento la legge morale come fatto della ragione e postulo l'esistenza della libertà perché ho l'esperienza morale.
Si tratta, dunque, di due cose, non solo profondamente connesse tra loro, ma direi assolutamente inscindibili l’una dall’altra: poiché senza legge morale non potrei postulare l'esistenza della libertà, ma senza libertà non potrei avere l'esperienza morale.
L’inscindibile binomio morale e libertà mi porta, qui, a considerare il correlato principio del c. d. libero arbitrio.
La libertà non dovrebbe essere un arbitrio che conduce all’indifferenza nella scelta di una strada, ma piuttosto il volere che, anche potendo scegliere il male, lo si evita e si decide di seguire il retto cammino indicato dalla legge morale. L’uomo libero, dunque, non è altro che un individuo rispettoso della moralità, mentre un delinquente (non rispettoso della legge morale) non è altro che uno schiavo del suo vizio e della sua malvagità.
Il mio pensiero, semplicemente, è quello che il libero arbitrio sia solo una sorta di falso dilemma; anzi, per taluni aspetti un vero e proprio paradosso: da un lato, si tratta di uno dei tanti dogmi religiosi maldestramente pensati per rafforzare una credenza, la quale, viceversa, ne risulta fortemente compromessa proprio a causa di ciò (tornerò ad approfondire questo aspetto, tra poco); per altro verso, parlare di libero arbitrio completamente svincolato da qualunque condizionamento esterno è chiaramente falso (o, se preferite, impossibile), ma dedurre da ciò che chi commette un’azione malvagia lo faccia solo a causa dei condizionamenti esterni subiti e, dunque, non ne sia sostanzialmente responsabile (rectius, punibile), equivarrebbe ad affermare un’assurdità priva di fondamento logico: il condizionamento c’è, ma non di tale rilevanza (permane, cioè, sempre una libertà d’azione): sia perché esso convive con giudizi sintetici a priori innati, sia perché è comunque parzialmente controbilanciato da ragione e forza di volontà che possono e devono agire.
La domanda è: “Perché Dio non impedisce che nel mondo si compia il male?”
Se Dio ha dotato l’uomo di libero arbitrio, pur sapendo che l’avrebbe usato per fini malvagi, significa che non è buono; se non ha potuto prevederlo significa che non è onnisciente; se a tutt’oggi non è ancora riuscito a fare niente per impedirlo significa che non è onnipotente.

6.         Morale e ragione

Estratti:

“Gli antichi prescrissero di seguire la vita migliore, non la più piacevole; cosicché è chiaro come il piacere non sia guida, ma compagno della giusta e buona disposizione. Bisogna servirsi della natura come guida: è lei che la ragione consulta e segue.”

Caro Seneca, concordiamo in pieno. La natura comanda e la ragione ci indica come dobbiamo comportarci se vogliamo seguirla, ossia agire in modo etico; e questo agire non è dettato dal puro sentimento del piacere, ma dal puro sentimento del dovere; vale a dire, da ciò che sappiamo essere moralmente giusto. Si agisce in tal guisa quando la motivazione che ispira le nostre azioni inferisce oggettivamente il bene (o, se preferite, il giusto). Un uomo buono è, dunque, colui che si comporta perseguendo il bene universale e non il puro benessere personale. Purtroppo, però, nell’immaginario collettivo, l’uomo buono e quello cattivo vengono identificati da caratteristiche di ben altra natura e valenza.

Buono è colui che non beve, non fuma, non dice brutte parole, parla alla presenza di uomini così come parlerebbe se ci fossero delle donne, veste in modo sobrio, fa parte dei consigli direttivi delle maggiori e più influenti associazioni politiche e religiose del suo paese, censura i professori che hanno idee sovversive (cioè, quelle idee contrarie alla morale comune della collettività), e, soprattutto, va a messa ogni domenica, si confessa per i suoi peccati (il che non vuol dire necessariamente anche che se ne penta davvero) e riceve l’Eucarestia.

Ebbene, sapete chi era così? Adolf Hitler! C’è qualcuno che possa definire il Fuhrer un uomo buono? Spero proprio di no.

Secondo, per esempio, il punto di vista dello psicologo americano Lawrence Kohlberg, famoso per la sua teoria sugli stadi dello sviluppo morale, la sfera della morale include sentimenti, pensieri e azioni, ma è il ragionamento che qualifica le azioni come specificatamente morali. Il ragionamento morale  è incentrato sui giudizi normativi prescrivendo ciò che è obbligatorio o giusto fare. I giudizi morali ci dicono cosa dovremmo fare nelle situazioni in cui le nostre richieste, o quelle di più persone, sono in conflitto tra di loro. In questi casi, le persone fanno riferimento a regole e principi normativi, alle conseguenze sul benessere delle persone coinvolte, al bilanciamento delle prospettive e alla ricerca dell’armonia personale e di gruppo. La teoria di Kohlberg sul ragionamento morale ne descrive lo sviluppo personale che si focalizza sul problema delle norme e della giustizia (in termini di diritti e doveri), affermando che i problemi universali di questo genere costituiscono il nucleo della moralità. In questo modo, Kohlberg si colloca nella tradizione kantiana, privilegiando il ragionamento (la ragion pura di Kant) e citando esplicitamente l’imperativo categorico. Egli sostiene che un comportamento è da considerare morale in modo categorico, cioè senza possibilità di smentita, quando è universalizzabile. Nella visione kohlberghiana, sono i vari singoli processi a causare il ragionamento morale e da questo ne consegue il giudizio morale. Secondo quest’ottica, le emozioni potranno essere senza dubbio degli stimoli per i processi di ragionamento, ma le emozioni morali non potranno mai divenire la diretta causa dei giudizi morali.

Nella prospettiva razionalista, quindi, il giudizio è strettamente legato al ragionamento e, in particolare, i giudizi morali sono sempre conseguenza di un ragionamento morale. Questo ragionamento morale può essere influenzato o meno dalle emozioni o dall’emotività, ma non dipende in alcun modo da esse.

Le logiche (ossia, le regole di funzionamento) che segue la ragione diventano prive di giustificazione sostanziale morale nella pratica, allorquando le emozioni prendono il sopravvento sulla volontà razionale. Al riguardo, potremmo parlare di ragione pratica in senso puramente tecnico e in senso più strettamente etico. La logica propria della ragione tecnica è l’efficacia. Essa, in sostanza, prima di mettersi in atto deve rispondere alla seguente domanda fondamentale: ciò che intendo fare, è fattibile? (comunemente si dice: è tecnicamente possibile). La logica propria della ragione etica è completamente diversa. Quest’ultima, infatti, non si accontenta di chiedere se l’azione che la persona sta per compiere sia tecnicamente possibile, ma si chiede se è un’azione buona o cattiva, giusta o ingiusta. La logica etica, in sostanza, è la logica della verità circa il bene delle persone. Essa risponde alla seguente domanda: ciò che intendo fare, è (moralmente) giusto?

Nessuno intende disconoscere la rilevanza della passione nella formazione del giudizio morale, ma è proprio nel momento stesso in cui prendiamo coscienza di ciò che stiamo razionalizzando l’intero nostro agire etico. Dopo di che, sarà la nostra volontà a permetterci di optare per una determinata azione o per un’altra. In ogni caso, anche se alla fine decidessimo di adottare un comportamento non-etico (ossia, un comportamento che miri esclusivamente al nostro benessere individuale e non a ciò che è oggettivamente corretto), questo nostro agire sarà comunque il risultato di ciò che la ragione (sbagliando) ci ha liberamente consentito di mettere in pratica, non certo della soggettiva passione nei confronti di un particolare piacere.

Non scambiamo la forza più o meno relativa della nostra volontà con il dominio delle nostre passioni. È la ragione che ci permette di individuare e riconoscere le passioni. Ed è sempre e solo la ragione che ci consente di agire in maniera morale.

Per meglio dire, ciò che deve essere moralmente buono non è sufficiente che sia conforme alla legge morale, ma deve invece necessariamente anche accadere per essa; altrimenti quella conformità è solo molto accidentale ed equivoca, perché il fondamento non morale produrrà certamente, di quando in quando, anche azioni conformi alla legge, ma più spesso ne produrrà di contrarie. In sostanza, nulla è possibile nel mondo che possa essere ritenuto buono senza limitazione, se non una volontà buona guidata dalla ragione.

“Tutti i concetti morali hanno la loro sede e la loro origine interamente a priori nella ragione; essi non possono essere dedotti per astrazione da alcuna conoscenza empirica; e proprio in questa loro origine sta il loro grado di purezza. Ergo, poiché per la derivazione delle azioni delle leggi è richiesta la ragione, allora la volontà non è altro che la ragione pratica. Se la ragione determina immancabilmente la volontà, allora le azioni di un tale essere, che possano essere riconosciute come oggettivamente necessarie, sono anche soggettivamente necessarie; vale a dire che la volontà è una facoltà di scegliere solo ciò che la ragione, indipendentemente dall’inclinazione, riconosce come praticamente necessario, ossia come buono.”

In conclusione, nella misura in cui usiamo la ragione, la nostra volontà ci permette sempre di applicare valori etici (la ragione è pura a priori). Se così non agissimo, i motivi sarebbero esclusivamente i seguenti:

1)         non siamo in grado di ragionare;

2)         siamo in grado di ragionare, ma non vogliamo farlo perché reputiamo che non sia per noi conveniente (ossia, tralasciamo “il dovere per il dovere” a causa di motivazioni meramente egoistiche); per meglio spiegare, insomma: scegliamo liberamente di andare contro i principi puri della ragione; ergo, diventiamo esseri immorali.

7.           La conquista della morale: un  mondo migliore  
Prologo – Vita – Morale – Epilogo

Estratti:

Una vita morale è una vita spesa bene …e ne abbiamo una sola.

Fin dal nostro concepimento (ma, per certi versi, prima ancora), lo spauracchio dei valori morali da acquisire per guidarci lungo il cammino della nostra vita è lì, pronto a darci il benvenuto al mondo. Questo nostro mondo è piuttosto imperfetto; lo sappiamo bene e ne comprendiamo altrettanto chiaramente la ragione: è un mondo di uomini e gli uomini non sono perfetti. Ribadito, dunque, per l’ennesima volta tale concetto, non resta che ragionare su quanto possiamo fare per cercare di migliorare, di limitare – per così dire – talune imperfezioni umane. E mi pare evidente che detto proposito possa essere raggiunto esclusivamente a patto di condurre la nostra esistenza sul viale dell’etica.

Poiché, nella primissima gioventù, non si sa in quali fini potremmo imbatterci man mano che cresceremo, i genitori cercano soprattutto di farci imparare un po’ di tutto: ossia, si preoccupano dell’abilità nell’uso dei mezzi per ogni genere di fine desiderabile. E questa preoccupazione è così grande che essi, però, trascurano spesso di formare e correggere i nostri giudizi sul valore delle cose che dovremmo correttamente porci come fini.

Personalmente, nella mia veste di genitore, ho sempre agito secondo un diverso metodo/sistema educativo e sulla base di una differente scala di valori, ritenendo viceversa prioritario insegnare quali dovrebbero essere considerati i fini di maggior valore da perseguire sulla base di una condotta oggettivamente morale, lasciando ai figli la capacità di scelta, tramite la ragione, sul conseguente corretto uso dei mezzi per raggiungerli.

i)          Il diritto di essere liberi, perché discende agli uomini direttamente dalla legge naturale universale per il solo fatto di essere venuti al mondo.

ii)         L’assolvimento del proprio dovere, perché è il solo comportamento indubitabilmente giusto a prescindere da chi lo mette in pratica.

iii)        Il senso di responsabilità, perché è inevitabile se si vuole crescere e diventare maturi.

iv)        L’ordine, giacché la natura stessa è ordine; le idee devono essere ordinate per garantirne la massima efficacia; la vita deve essere ordinata per raggiungere i migliori risultati possibili; il lavoro è maggiormente efficiente se c’è organizzazione e questa non può mai prescindere dall’ordine.

v)         L’altruismo e la sensibilità verso il nostro prossimo, perché in quanto cittadini della terra non possiamo auto-escluderci socialmente o estraniarci rispetto ai problemi del mondo.

vi)        Il credere in noi stessi e nelle nostre potenzialità, perché prima o poi nella vita si resterà soli nell’affrontare le avversità e nell’assumere difficili decisioni, e dobbiamo convincerci che non abbiamo bisogno di aiuti esterni, in quanto è dentro di noi che troveremo ogni risposta.

vii)       La ragione, perché è l’unica guida che vale in ogni tempo e luogo per risolvere qualunque problema, e perché è ciò che ci distingue, elevandoci, rispetto agli altri esseri viventi.

viii)      Il massimo rispetto per la vita umana, perché è il bene più prezioso che tutti indistintamente possediamo.

ix)        La pazienza e la non-violenza, perché proprie dell’uomo forte; solo i deboli e gli incapaci devono ricorrere alla violenza per poter raggiungere i loro scopi.

x)         Il non credere per pura fede a ciò che ci viene inculcato dal prossimo senza aver prima studiato i fatti e verificato la dimostrabilità di qualsiasi teoria, perché in quanto esseri dotati di intelligenza possiamo e dobbiamo essere in grado di maturare le nostre convinzioni, nonché essere coscienti dei nostri ragionamenti.

xi)        L’uguaglianza di tutti gli esseri umani, perché è giusto nella vita (come nello sport) perseguire sempre il nostro “di più”, ma questo “di più” è privo di valore se tutti quanti non godiamo di pari diritti.

xii)       L’onestà, perché i meriti acquisiti sono realmente nostri e non effimeri solo se li abbiamo conquistati senza aiuti esterni o imbrogli e sotterfugi di qualunque specie.

xiii)      La verità, perché una persona che ha bisogno di ricorrere alla menzogna è un essere inetto e incapace che merita compassione.

xiv)      Il rispetto dei diritti altrui, perché un mondo in cui le persone non si rispettino vicendevolmente è un non-mondo privo di essenza e di esistenza.

xv)       Il cercare di perseguire – per quanto umanamente possibile – un bene comune, giacché senza il bene comune l’insieme-comunità non è felice, e il bene singolo del sotto-insieme-individuo facente parte dell’insieme-comunità perde ogni valore assoluto, rimanendo a un livello puramente relativo, dunque, del tutto insoddisfacente e insignificante.

E, ovviamente:

xvi)      L’essere persona morale che segue valori etici universali, perché è solo osservando tale imprescindibile imperativo categorico che potremo aspirare a ricevere il premio più grande: lasciare buona memoria di noi… e lasciare buona memoria di noi è l’unica cosa che la natura ci permette di ottenere in questo nostro mondo imperfetto.

La morale oggettiva è un concetto puro e, come tale, risulta essere indipendente da fattori esterni: è già presente dentro l’uomo; e deve restare incondizionatamente puro; ossia, essere un mero prodotto a priori del nostro cervello che usa la ragione.

L’azione morale non può, dunque, avere ragioni esterne, ma deve essere autonoma: è il senso interno del dovere morale che la muove (ossia, appunto, il dovere per il dovere). Un’azione giusta va fatta perché è giusta, per il senso del dovere; non per i benefici che ne possiamo trarre o per evitare le sanzioni che ne deriverebbero.

Ecco il sunto della legge morale universale: il dovere per il dovere; sulla base di ciò possiamo aspirare a costruire un mondo migliore.

Al principio di questo capitolo ho scritto che una vita morale è una vita spesa bene. Ora, in chiusura, anche alla luce delle ultime considerazioni svolte, sento di dover correggere questa mia affermazione:

Una vita morale è l’unica che valga la pena di essere vissuta.

Solo, infatti, con la conquista della legge morale universale (il dovere per il dovere), che sia fondata su un’etica della natura e non della religione, potremo nutrire la speranza di costruire un mondo migliore.

Faccio, dunque, appello a quella parte di ragione che ogni uomo ha dentro di sé, per chiedergli di compiere un razionale esame di coscienza. I fatti incontrovertibili sono:

a)         Il nostro è sempre stato ed è tuttora un mondo malvagio e immorale;

b)         Il nostro è sempre stato ed è tuttora un mondo dominato dalle religioni, ciascuna delle quali predica il suo Dio, la sua morale e la sua bontà; e però, nel contempo, non lesina malvagità e guerre;

perché allora non provare a vivere senza questo dominio dogmatico che, evidentemente, non ha mai apportato alcun vantaggio etico alla nostra esistenza?

Se agiamo in maniera oggettivamente morale, mossi da uno scopo giusto, per un fine giusto e con la sola speranza di far del bene; quale Dio buono e misericordioso potrà mai condannare le nostre azioni e non permetterci di godere dei privilegi di una presunta vita eterna nell’aldilà?

Appendice: Massime – Aforismi – Citazioni

Estratti:

Quando sei confrontato da un’opposizione, anche se dovesse trattarsi del tuo coniuge o dei tuoi figli, cerca di superarla con la discussione e non con l'imposizione, perché una vittoria ottenuta con la forza è fittizia e illusoria.

Che male ci arrecano gli animali? Perché li mangiamo? Gli animali, fra di loro, lo fanno, ma solo perché non hanno la ragione e l’intelligenza per agire diversamente e, se non lo facessero, morirebbero di fame. Anche per gli uomini è lo stesso? Se non mangiassimo gli animali, anche noi moriremmo di fame?

Perché alcuni sono tanto ricchi da buttar via il cibo e altri sono talmente poveri da restarne senza? E non sarebbe normale e ragionevole che, quanto meno, il cibo in più dei ricchi, anziché essere gettato via e sprecato, fosse donato a chi non ne ha a sufficienza per condurre dignitosamente la propria esistenza?

Di chi è la terra? Perché certi popoli ne hanno così tanta e altri quasi per nulla? Non siamo tutti esseri umani che vivono nello stesso pianeta con il medesimo diritto di abitarlo?

I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo.

Il fatto che l'uomo sappia distinguere tra il bene e il male dimostra la sua superiorità intellettuale rispetto alle altre creature; ma il fatto che possa compiere azioni malvagie dimostra la sua inferiorità morale rispetto a tutte le altre creature che non sono in grado di compierle. 

Se la chiesa preferisce tanti falsi fedeli che credono per convenienza a pochi fedeli che lo fanno consapevolmente, è affare suo; ma certo non è affare eticamente corretto. Ergo, avere “fede”, oggi, non risulta essere questione morale.

La ragione e il senso del dovere guidano il nostro cammino sul viale dell’etica. 

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