Paolo Soro

Stabile organizzazione se l’attività è svolta in Italia a “ciclo completo”

Non occorre una sede “materiale”, ma è sufficiente un soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente concluda in nome dell’impresa estera contratti diversi da quelli di acquisto di beni.

Per l’esistenza della stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente è necessario un approccio sostanziale che esamini il complesso delle attività svolte.

Con l’ordinanza n. 21693 dell’8 ottobre 2020 la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire quali sono i presupposti affinché possa ritenersi esistente in Italia una stabile organizzazione di un soggetto non residente.

Da un punto di vista generale, ai fini dell’imposizione diretta, si osserva che, secondo l’ordinamento italiano, che ha recepito nell’articolo 162 del Tuir le indicazioni dell’Ocse, l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di un’impresa estera ricorre:

sia in caso di stabile organizzazione “materiale”, cioè quando si ha “una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività sul territorio dello Stato” (così, il primo comma del citato articolo 162). In tal caso è necessario, quindi, che ci sia una sede localizzata sul territorio in modo non occasionale per l’esercizio di una attività economica e, secondo la dottrina e giurisprudenza internazionale, bisogna fare attenzione che la sede fissa di affari sia stabile, connessa a un esercizio normale di attività d’impresa e idonea a produrre reddito

sia in caso di stabile organizzazione “personale”, cioè quando “nonostante le disposizioni dei commi precedenti (…), costituisce una stabile organizzazione dell’impresa di cui al comma 1 il soggetto, residente o non residente, che nel territorio dello Stato abitualmente conclude in nome dell’impresa stessa contratti diversi da quelli di acquisto di beni” (così il sesto comma del citato articolo 162) In tal caso, la stabile organizzazione si realizza per il tramite di un rappresentante dotato del potere di concludere contratti per conto dell’impresa non residente nel territorio dello Stato e l’attività del rappresentante si concretizza in modalità e figure giuridiche che comportano un legame materiale meno intenso con il territorio dello Stato.

La vicenda sottoposta all’esame della Corte suprema deriva dall’impugnazione di alcuni accertamenti notificati dall’Amministrazione finanziaria a una società estera che operava nel settore del commercio di materiali da costruzione per il tramite di una persona fisica. Quest’ultima aveva compiuto per conto dell’impresa non residente una serie di attività, realizzando in tal modo una stabile organizzazione.

Il contenzioso di merito era stato deciso in primo grado da una sentenza parzialmente favorevole all’ufficio, con rideterminazione del reddito imponibile limitatamente alle vendite ai clienti italiani, pronuncia che era stata confermata in secondo grado.

L’Agenzia delle entrate, quindi, ricorreva in Cassazione ritenendo che la sentenza della Ctr avesse, da un lato, violato l’articolo 162 del Tuir per aver accertato il reddito non dichiarato in relazione alle vendite effettuate nei confronti dei soli clienti italiani e per aver escluso l’idoneità di tale circostanza a configurare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia e, dall’altro, che la sua motivazione fosse insufficiente e contraddittoria per non aver considerato tutti gli elementi dedotti dall’ufficio per la sussistenza in concreto della stabile organizzazione.

La Corte di legittimità ha accolto entrambi i motivi proposti, cassando con rinvio ad altra sezione della Commissione regionale.

In particolare, il Collegio, rilevando che gli accertamenti avevano a riferimento gli anni d’imposta dal 1999 al 2006, ha individuato la disciplina applicabile ratione temporis e ha sottolineato che fino all’anno d’imposta 2003 operava l’articolo 20 del “vecchio Tuir”, confluito e modificato a partire dal 2004 dall’articolo 162 del “nuovo Tuir”.

La Corte ha ravvisato piena compatibilità tra le due discipline circa i presupposti per l’esistenza della stabile organizzazione, rilevando che, mentre nella vigenza del citato articolo 20 del “vecchio Tuir”, che non conteneva una definizione di stabile organizzazione, l’interprete doveva fare ricorso all’articolo 5 del Commentario Ocse, il quale ne forniva una definizione, con l’articolo 162 del “nuovo Tuir” è stata inserita nell’ordinamento italiano la stessa definizione di stabile organizzazione contenuta nel Commentario Ocse.

Di conseguenza, secondo i giudici di legittimità, i presupposti per l’esistenza in Italia di una stabile organizzazione di un soggetto non residente e per l’imponibilità del relativo reddito d’impresa, sono costituiti da: “una presenza che sia incardinata nel territorio dell'altro Stato e dotata di una certa stabilità; una sede di affari capace, anche solo in via potenziale, di produrre reddito; un’attività autonoma rispetto a quella svolta dalla casa madre, dovendo aggiungersi che, ai fini dell'applicazione delle imposte dirette, la relativa indagine deve essere condotta non solo sul piano formale, ma anche, e soprattutto, su quello sostanziale”.

La Cassazione, ha puntualizzato che, ai fini della ricorrenza del presupposto dello svolgimento di un’attività economicamente rilevante per il soggetto a cui la stessa è riferibile, l’attività deve essere intesa “in senso ampio, fino a ricomprendervi anche lo svolgimento di una prestazione di servizi, o, in generale, qualunque attività di impresa, purché riferibile, appunto, al soggetto che la esercita” e, poiché vanno escluse tutte quelle attività non suscettibili di produrre un reddito autonomo, “possono rientrarvi solo quelle consistenti in un ciclo completo di attività imprenditoriale con un proprio risultato economico autonomo rispetto a quello conseguito dalla “casa madre”.

Inoltre, il Collegio ha osservato che, se anche la sede fissa effettuasse contemporaneamente attività preparatorie e accessorie e attività economiche sintomatiche dell’esistenza di una stabile organizzazione, in ogni caso la stessa andrebbe considerata come stabile organizzazione per l’intero.

Sulla base di tali considerazioni, il giudice di legittimità ha sottolineato l’erroneità della sentenza di secondo grado, la quale aveva ritenuto “che non potesse configurarsi una stabile organizzazione se non per un processo produttivo limitato nei confronti dei clienti italiani (la società contribuente ha svolto un completo processo produttivo soltanto nei riguardi di clienti italiani): in realtà, la stabile organizzazione, come detto, sussiste per il solo fatto che si sia accertato che siano state realizzate attività di impresa dalla stabile organizzazione, essendo irrilevante il fatto che, unitamente ad esse, siano state, altresì, svolte attività accessorie o preparatorie in relazione ad ulteriori attività; in secondo luogo, va aggiunto che la norma in esame prevede che la sede fissa d'affari, per essere considerata una stabile organizzazione, deve essere utilizzata dall'impresa non residente per l'esercizio, in tutto o in parte, della “sua attività”, il che non implica necessariamente che l'attività da svolgere per mezzo della sede debba appartenere a quelle esercitate nel complesso dalla casa madre, essendo requisito necessario, invece, che sia svolta una qualunque attività di impresa, sia essa comparabile con taluna delle attività già esercitate sia di tipo diverso rispetto alle altre attività, purché riconducibili al soggetto che la esercita”.

La Cassazione, sulla base di tali considerazioni, ha, quindi, destituito di fondamento la decisione di secondo grado, che aveva indicato in modo generico che il fatto che la società non residente avesse la natura di holding rendeva possibile lo svolgimento di tutta una serie di attività, quali la “direzione, coordinamento, preparazione della operatività delle proprie controllate, intermediazione, tesoreria del gruppo”, le quali erano idonee a escludere la ricorrenza di una stabile organizzazione.

Infatti, il Collegio romano ha concluso il proprio ragionamento evidenziando che “in realtà, poiché le attività meramente preparatorie o ausiliarie sono quelle che, da un lato, non consentono di attribuire un reddito alla sede fissa d’affari mediante la quale sono esercitate, e, d’altro lato, sono rivolte esclusivamente in favore dell'impresa, ove la suddetta attività si traduce, di fatto, in una funzione di finanziamento ovvero in una prestazione di servizi in favore di altre imprese, anche se facenti parte del gruppo in cui si colloca la casa madre, non può, allora, ragionarsi in termini di ruolo svolto con finalità meramente preparatorie o ausiliarie della casa madre di appartenenza, essendo ipotizzabile il perseguimento di un autonomo risultato economico rispetto a quello conseguito dalla sede centrale mediante lo svolgimento di attività che non sono rivolte esclusivamente in funzione del ciclo produttivo dell’attività di impresa della casa madre” e che, pertanto, la sentenza di secondo grado aveva violato l’articolo 162 del Tuir, non avendo valutato in maniera specifica gli elementi di fatto indicati dall’Agenzia sulle singole e diverse attività svolte dalla sede fissa che avrebbero potuto ricondurre la fattispecie concreta all’esistenza di una stabile organizzazione in Italia di società non residente.

Infine, il giudice di legittimità ha ravvisato anche l’esistenza del vizio di motivazione dedotto dall’amministrazione, in quanto la sentenza della Commissione regionale, pur dando atto del ruolo che la persona fisica svolgeva per conto della società, consistente nello svolgimento di “una pluralità di attività, consistenti nel perfezionamento di contratti di acquisto e vendita, nel reimpiego di denaro ottenuto dall'attività caratteristica in investimenti, finanziamenti, mutui a garanzia a beneficio suo o di terze persone fisiche e giuridiche, avvalendosi anche dell'apporto di terzi”, aveva evidenziato che ciò determinava solo una possibile commistione dell’attività del rappresentante con quella della società, senza, quindi, valutare la possibilità di ricorrenza dei presupposti per l’esistenza di una stabile organizzazione “personale”, prevista dal comma 6, dell'articolo 162 del Tuir, ipotesi che, secondo la tesi dell’ufficio, era concorrente nella presente fattispecie con quella dell’esistenza di una stabile organizzazione “materiale”.

La Corte suprema, in particolare, ha evidenziato tutte le circostanze a favore di questa soluzione, indicate dall’ufficio e non considerate dai secondi giudici, quali il fatto che la persona fisica che agiva “emetteva le fatture per conto della società; conservava la documentazione nell’interesse della società; perfezionava contratti di vendita, apponendo la propria firma/sigla su tutte le fatture, curava i rapporti con gli intermediari bancari nazionali presso cui erano accessi conti correnti societari, esteri e in valuta, pagava i fornitori emettendo assegni tratti su conti correnti societari ma anche su conti intestati a persona fisica, dava disposizioni agli intermediari bancari di incassare le fatture”, per sottolineare che la decisione di merito non aveva analizzato il rapporto esistente tra la società non residente e il ruolo che la persona fisica aveva nello svolgimento dell’attività per conto della stessa.

Pertanto, la motivazione resa dal collegio di merito era insufficiente, da un lato, per non aver analizzato le attività concrete poste in essere dalla persona fisica per conto della società non residente, che consistevano nelle attività di acquisto di beni e servizi per conto delle consociate, di invio dei corrispettivi direttamente sui conti correnti accesi in Italia e, dall’altro, per non aver considerato, ai fini della ricorrenza della stabile organizzazione “personale” ex articolo 162, comma sesto, del Tuir, l’eventuale natura di intermediazione del ruolo svolto dalla persona fisica, nonché lo svolgimento della specifica funzione di finanziamento e dell’attività di reimpiego del denaro.

Fonte: Fisco-Oggi

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